Capitolo 15

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Ester era in defibrillazione.
Si sentiva finalmente viva, era come se un energia nascosta e sopita dentro di lei fosse esplosa nel momento stesso in cui aveva toccato il piano.
Si sentiva viva, felice, era come se fosse stata sott'acqua e avesse finalmente preso una boccata d'aria fresca dopo un lungo periodo di apnea.
L'adrenalina la faceva rabbrividire, e se la violoncellista non l'avesse scossa molto probabilmente non si sarebbe alzata.
Ritornò velocemente alla realtà e presero velocemente i corpi delle tre ragazze, portandole nella fossa comune in cui tutti i corpi si accatastavano, nudi e privi di vita.
Pallidi arti senza senso, senza scopo, come oggetti privi di importanza.
Pulirono gli strumenti macchiati di sangue, il pavimento, i sedili e i leggii.
In seguito ritornarono velocemente alle loro baracche, e quando rientrarono nella loro spoglia dimora, nessuno pianse.
Abbassarono il capo, sdraiandosi nei loro giacigli, tutte erano a conoscenza di ciò che era successo, e non si rimpiangeva più la morte delle ragazze, ma anzi, in cuor loro, alcune agognavano la morte, e forse si proponevano spontaneamente proprio per concludere quel ciclo angosciante scandito dal lavoro e dal sonno.
Ester sentì le braccia di Adeline stringerla a sé, il suo corpo scheletrico era così appuntito che la faceva male, ma quell'abbraccio la riscaldò immediatamente e la strinse a sè a sua volta, sentendo le lacrime calde della francese sul suo petto.
La neve scendeva fitta ora, e gli spifferi del vento glaciale le colpivano la schiena, facendola rabbrividire.
Ma il suo cuore batteva forte, e per la prima volta da quando aveva messo piede ad Auschwitz, Ester era felice.
Felice, perché sapeva che per una volta, qualcuno era grata di non vederla nuda tra i corpi bianchi come la neve, che cadeva sul terreno coprendoli con un velo, quasi come se il cielo si scusasse e li volesse, ora, proteggere.

Friedger aveva la testa poggiata sul cuscino, quella sera non riusciva a prendere sonno.
Amalia era ritornata volontariamente a Berlino dopo quello spettacolo macabro, non lo aveva guardato in faccia, e nonostante l'orario tardivo l'uomo l'aveva lasciata andare, offrendole la sua auto.
Non gli interessava onestamente se fosse turbata o meno, sapeva che non ne avrebbe parlato con nessuno, era troppo stupida per riuscire a fermare quella macchina mortale che era il campo di concentramento di Auschwitz.
No, Friedger pensava a qualcos'altro mentre fissava il lampadario della sua stanza, spoglia e impersonale.
Pensava a quella ragazza che aveva suonato il piano, quel volto scavato, pieno di lentiggini sbiadite, quei due grandi occhi nocciola dalle sopracciglia rossicce corrugate.
Vedeva le sue dita danzare con maestria sul piano, come lo avevano incantato.
Era come se quel piano, strumento vuoto e silenzioso, sotto le mani di quella deportata avesse preso vita, si fosse mosso, danzando insieme alla musica che emetteva in maniera quasi nevrotica.
Era stato un catalizzatore di emozioni, e quando i polpastrelli si erano fermati, tutto si era spento.
Friedger aveva fissato a lungo quella giovane donna, cosi piccola e esile che pareva un cadavere mosso da fili invisibili, e l'uomo aveva avuto l'improvviso desiderio di possederla.
L'uomo voleva rubare quella energia segreta che la Heilbrunn aveva donato al piano, e non faceva altro che pensare a lei da quando l'aveva vista.
Non era raro che la sua mente si fissasse su una donna in particolare, ma quando la otteneva si annoiava e la buttava via, come un giocattolo usurato.
Eppure quella deportata era una preda così delicata e irraggiungibile, che quella caccia sarebbe probabilmente stata la più interessante della sua vita.
Sorrise fra se e se, sapeva già cosa avrebbe fatto.
Si, lei sarebbe stata sua, in un modo o nell'altro.

La mattina dopo Ester e l'austriaca, che scoprì chiamarsi Katarina, furono chiamate all'appello per il cognome, e tutte le guardarono con gli occhi spalancati.
Era come se fossero mutate, ai loro occhi ora erano diventate delle umane, con due gambe, due braccia e due occhi.
Erano delle donne, non più ebree.
Ester e Katarina furono portate nel blocco dedicato alle SS, in un edificio più nascosto di quello adibito alla festa.
Era incastrato tra due edifici opposti, da cui proveniva un grande trambusto di voci maschili, e creavano uno stretto corridoio che portava in un piccolo piazzale, da dove si subentrava attraverso una ripida scalinata di ferro, in uno stanzino ordinato.
Dovevano essere in una delle camere adibite per essere occupate dai soldati: era piccola, quadrata, dalle pareti giallo pallido su cui si poggiavano il letto, il comò, l'armadio e una piccola scrivania, su cui era poggiato un orologio e la foto di Adolf Hitler.
Ester distolse lo sguardo, e guardò il soldato davanti a se: era giovane, dovevano avere pressocchè la stessa età, aveva una fronte molto ampia e due basette dorate gli incorniciavano il volto ovale, le labbra erano carnose e il naso era storto, come se avesse fatto a pugni e gliel'avessero rotto e mai più aggiustato.
Gli occhi, due profonde pozze nere, la osservavano con disgusto, disprezzo, uno sguardo che toglieva l'umanità.
Era abbastanza alto e poco più magro degli altri, indossava la tipica divisa tedesca e sul mento cresceva una ispida barba rossastra, come se si fosse scordato di rasarsi quella mattina.
Cominciò a parlare velocemente: - Per oggi starete qui, fino a stasera, quando vi verremo a prendere per suonare.- indicò una porta bianca, accanto all'armadio.- Vi farete il bagno, tra poco vi porteremo il pranzo, dentro l'armadio ci sono due abiti che dovete indossare.-
Celere e chiaro, fece dietrofront e si avviò verso la porta, ma all'improvviso Ester urlò: -Aspetta!-
Il soldato si girò estremamente infastidito, guardandola malamente.
–Tu...- la ragazza esitò, era abbastanza scossa, ma si fece forza e concluse la frase lasciata a metà. –Tu sei Herbert Schäfer? –
L'uomo si voltò verso di lei estremamente confuso e sorpreso. –Come...?-
-Andavamo nella stessa scuola... - la ragazza deglutì, posandosi le mani sul ventre come per proteggersi da quel ricordo doloroso.
Ancora ricordava i banchi, le maestre, l'Einschulungsfeier, il primo giorno di scuola elementare in cui veniva dato a tutti i bambini lo Schultute, una borsetta piena di caramelle, e lei che aveva mangiato solo quelle alla frutta e aveva lasciato tutte le altre, ritornando a casa con un mal di pancia da matti.
Sorrise malinconicamente. – Eravamo nella stessa classe di aritmetica, ero seduta accanto a te.- stese un attimo in silenzio, poi riprese. –Ester, ricordi?-
Il soldato la guardava in maniera persistente, con le labbra strette, era immobile.
La ragazza era a disagio, forse non avrebbe dovuto rievocare quel ricordo, ma non aveva potuto farne a meno.
Lo ricordava chiaramente: era uno di quei bambini che odiava stare seduto ad ascoltare le lezioni, e voleva sempre stare al centro dell'attenzione, un vero combina guai.
La faceva ridere sempre, e nonostante non fossero mai stati molto amici, lo ricordava vividamente proprio perché molte volte lo aveva aiutato nei calcoli, che gli venivano così difficili.
Lo vide afflosciarsi all'improvviso, tutta la rigidità da soldato scomparve, ritornò all'improvviso bambino, con quel broncio che tirava le commessure delle labbra in giù quando lo sgridavano per le marachelle che combinava e le sopracciglia aggrottate.
Distolse lo sguardo, e disse con voce strozzata: -Mi aiutavi a fare i compiti.-
Lei annuì, e lui la guardò con gli occhi lucidi, ricolmi di dispiacere, di tristezza, quelle due pozze nere erano diventate dei laghi profondi, che traboccavano di parole non dette, di scuse che non potevano essere articolate con parole vane.
Si voltò, senza dire altro, e scomparve dietro la porta, portando via con se il piccolo Herbert, che nella stanza stava già devastando il letto e ritagliando la foto di Hitler.
La ragazza sentì che aveva fatto la cosa giusta: chiuse per un attimo gli occhi e sospirò amaramente, poi si voltò verso Katarina, che la guardava con i suoi occhioni grigi.
La violoncellista doveva avere 30 anni all'incirca, era una donna molto alta, e aveva un volto estremamente diafano, caratterizzato dagli zigomi sporgenti che sembravano essere diventati affilati con il dimagrimento repentino causato dalla deportazione.
Aveva le labbra sottili, una linea diritta sopra il mento prominente dove sostava una fossetta perenne, il naso era all'insù, il che le dava un'aria un po' snob, e i capelli radi sul capo erano color cioccolato, e dovevano essere veramente belli visto le copiose onde che si accennavano sulla sua fronte alta e regale.
Non era bellissima, ma aveva sicuramente fascino con quei tratti unici che la componevano e si completavano sul suo volto.
Katarina non parlava tedesco, lo capiva abbastanza velocemente per eseguire gli ordini ma comunicavano più che altro a segni, sicuramente non aveva capito molto di quella conversazione e la guardava con stupore e confusione.
Non dissero nulla, ed entrarono nel bagno con timore, aprendo la porta lentamente e sbirciando all'interno, come se avessero paura di trovare un soldato che le avrebbe picchiate e rimandate a lavorare.
Il bagno era pulito, profumava leggermente di disinfettante, era più piccolo della stanza principale, il lavabo era posizionato vicino al wc, mentre addossato al muro una grande vasca padroneggiava la camera.
Sopra il lavandino era appeso un piccolo specchio, in cui Ester curiosa si riflesse, mentre Katarina corse verso la vasca, cominciando a riempirla, attivando la caldaia posizionata poco sopra.
La ragazza non si guardava da molto tempo, e vide davanti a se quello che pareva un cadavere, con un cencio appeso sulle clavicole sporgenti, troppo piccolo per una persona di stazza normale e troppo grande per lei.
Due pesanti occhiaie viola erano sormontate dai sue due occhi stanchi, i zigomi erano sporgenti sulle gote incavate, le labbra erano sottili e screpolate, pallide, e appena le toccò guardò la sua mano.
Riusciva a contare ogni falange, ogni tendine e ogni vena sulla pelle trasparente.
Decise di togliersi l'abito di traliccio sporco, lo fece lentamente, aveva paura di vedere cosa si nascondeva sotto.
Lo sterno era prominente, le costole si alzavano e abbassavano coordinate al suo respiro, mentre grandi lividi violacei coloravano la pelle pallida, li dove era stata massacrata di calci e pugni.
I seni erano piatti, i capezzoli erano piccoli e di una colorazione anormale.
Si girò lentamente, mentre osservava la colonna vertebrale muoversi sotto la sua pelle, le scapole , il bacino che spuntava da sotto i pantaloni.
Lo sguardo si alzò alla sua testa, e si tolse il piccolo lembo che le copriva la cute: ispidi, i capelli rasati recentemente ricominciavano a spuntare, un piccolo campo di grano su quel cranio pallido e graffiato dalle lame ripetutamente.
-Ester?- Katarina la riscosse dalla sua analisi, aveva lo sguardo preoccupato, anche lei si era spogliata e notò che erano completamente uguali: due corpi vivi per miracolo.
-Sto bene!- esclamò lei, asciugandosi le lacrime dal volto e uscendo dalla stanza, le lasciò un po' di intimità dato che il campo aveva completamente cancellato anche cosa voleva dire possedere il proprio corpo.
Tutto era in comune; le latrine, i giacigli, le costringevano a correre nude durante la selezione, i cambi di biancheria erano dei miraggi e non potevi lavarti.
Sapeva che in un blocco della sezione maschile era scoppiata un'epidemia di febbre tifoidea, e ringraziava il cielo di riuscire ancora a camminare sui suoi piedi ed essere "sana".
Tenne stretta la maniglia della porta sovrappensiero e quando alzò lo sguardo scoprì che sulla scrivania erano poggiati due piatti fumanti di bontà.
Il profumo emanato da quelle pietanze era indescrivibile: era un piatto di knödel in brodo, con un secondo di sauerkraut e salsiccia, accanto una brocca d'acqua e due bicchieri, con del pane in un cesto.
Ester si buttò completamente sul cibo, lo divorò non usando nessuna posata, era come un cane che leccava il fondo del piatto in maniera famelica, mangiava a bocca aperta, gemendo di goduria e piangendo disperatamente.
Era così tentata di divorare il piatto di Katarina che indietreggiò velocemente, sbattendo la schiena contro il muro e cadendo a terra.
Rimase seduta sul pavimento, immobile, le mani sporche e il volto gocciolante di brodo: non mangiava da tre giorni.
Sapeva che il suo corpo non era abituato a quella dose di cibo, rischiava un blocco intestinale e sentiva il cibo fare su e giù nel suo esofago: aveva la bocca bagnata, segno che stava per vomitare tutto ciò che aveva ingurgitato.
Chiuse gli occhi e si concentrò nel far rimanere tutto nel suo stomaco, e senza rendersene conto si addormentò cosi, con la testa poggiata sul muro, come se la sua mente avesse bisogno di un time out da tutte quelle emozioni senza nome che vorticavano nella pancia della giovane.

The Nutcracker SuiteWo Geschichten leben. Entdecke jetzt