Capitolo 16

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12 Marzo 1943
Dachau

Marzo doveva essere il mese della primavera, dei fiori e delle belle giornate, ma in Germania faceva sempre freddo.
Wilm aprì gli occhi fissando il legno del letto sopra di se, le urla distinte dei soldati gli arrivavano alle orecchie confuse nella dormiveglia.
Era l'ora dell'appello.
Si alzò stancamente sbadigliando, sgranchendosi il collo e la schiena, mentre osservava i vicini compagni di stanza che si alzavano grattandosi la ispida barba sul mento, alcuni vestendosi in fretta.
Il soldato a loro assegnato intimava di sbrigarsi, mentre si accendeva distrattamente una sigaretta guardando il cielo terso e limpido.
Come un eco lontano arrivava il rumore delle baracche vicine, quella dei "sacerdoti", degli ebrei, dei prigionieri di guerra.
Lentamente si levò dal suo letto frugando dentro la tasca dei pantaloni sporchi, trovando il pacco di sigarette che cercava.
Fece cenno al soldato che gli passò la scatoletta di metallo, che con un piccolo sciocco rivelò un accendi gas, con cui accese la punta della sigaretta.
-Grazie.- assentì mentre si allontanava ciondolando verso la cantina-bar situata poco avanti, nella zona dove i deportati si preparavano per l'appello.
Chiese una marmellata di rape, che gli venne data immediatamente, senza contestare, da uno degli internati che era stato assegnato a quella mansione.
Mentre la gustava infilando il dito nella boccetta, si infilò tra gli uomini della sua baracca, che guardavano la marmellata lucida più che i soldati dai volti seri che sbraitavano i numeri di ognuno di loro.
Mentre gustava nel palato il sapore mediocre delle rape, mischiandosi alla nicotina della sigaretta che teneva tra l'indice e il medio, guardava le casupole e gli edifici in lontananza: c'era un piccolo carro che raccoglieva i corpi morti, per portarli nelle fosse comuni.
I forni crematori non bastavano in quell'industria di morte.
Finito l'appello, mentre i suoi compagni andavano a lavorare, lui venne portato in una piccola saletta, dove sarebbe stato proiettato il film di propaganda nazista preparato solo ed esclusivamente per lui.
Prima di entrare gettò la sigaretta ancora integra di lato, nel terreno arido, ed entrò seguito da un soldato laccato e ritto, gli ricordava un pupazzo, o meglio, una marionetta.
La saletta era piccola e spoglia, gli aloni di muffa coprivano porzioni del tetto e gli angoli della stanza, c'era puzza di polvere e di vecchio e molte sedie erano accatastate l'una sull'altra in fondo alla sala, dove un piccolo quadrato mostrava l'occhio trasparente da cui si sarebbe irradiata la luce del filmato.
Si sedette di fronte al muro bianco, nell'unica sedia preparata per lui, mentre venivano spente le luci e la cinepresa si attivava, mostrando il visone di Hitler che parlava.
Sputacchiava, gesticolava furiosamente, gli occhi venivano spalancati per la passione e la vitalità con cui affermava la sua ideologia, i suoi comandi nella tribuna degli oratori: la sua figura patetica immersa tra mille volti ammiranti.
Berlino in festa acclamava la prima divisione, vittoriosa nelle Fiandre e in Polonia, le mitragliatrici coperte di mazzolini di fiori.
Berlino urlava di gioia a degli assassini, accalcati nelle strade, nei balconi e nelle finestre, urlando e proclamando quell'esercito bestiale con gioia e amore.
Donne dalle file di denti simili a collane di perla e i capelli cotonati, uomini che filmavano esultanti i soldati che salutavano con un braccio alzato nelle loro motocarrozzette.
E le bandierine sventolate, quelle bandierine con lo sfondo rosso, dove al centro spiccava il cerchio bianco, abbellito dalla svastica nera che roteava immergendo tutta la vastità di quella opulenza vergognosa nel baratro del fanatismo patriottico.
Wilm guardò con disgusto la propaganda che ogni giorno doveva subire, quella odiosa verità fuori dal mondo che viveva, una filosofia che volevano inculcargli, per sanarlo, per farlo risplendere nel suo involucro ariano: un nazista così, dentro e fuori.
Il ragazzo di 24 anni, stravaccato sull'unica sedia nella sala, aveva il suo aspetto abituale: il viso squadrato, i capelli biondi scompigliati anche se molto più corti del solito, gli occhi grigi sopra il letto di lentiggini sul naso dritto, la linea sottile delle labbra arcuate in un ghigno di disgusto.
Portava la camicia di traliccio con il suo numero stampato sul petto sotto un cappotto di bassa qualità e di modesta fattura che però lo teneva al caldo, il berretto grigio tra le mani, i calzoni stretti con una cintura di cuoio.
La sua mente si disconnesse da quella visione insopportabile, ripensando ai primi momenti vissuti da quando aveva abbandonato Ester in quel vagone caotico di donne e uomini senza speranza.
Era stato un anno particolare quello vissuto a Dachau: Wilm inizialmente veniva trattato come la maggior parte degli oppositori politici, anche se alcuni soldati erano particolarmente clementi con lui a causa del suo aspetto.
Alcune esclamazioni di sorpresa accompagnavano i suoi comportamenti da sovversivo, lo guardavano con confusione, non capivano come qualcuno di così ariano potesse essere antinazista.
Ma la sorpresa durò poco, non gli risparmiavano nulla: lavorava sodo nelle fabbriche di armamenti, veniva picchiato se non seguiva le regole.
Aveva cercato più volte di formare gruppi, di progettare piani di assalto, unendosi con le baracche vicine: ogni volta era stato scoperto, picchiato, minacciato e deriso in pubblica piazza.
Eppure... eppure dentro di se sapeva che comunque veniva trattato meglio degli altri, le sue razioni di cibo erano abbondanti e i soldati si rivolgevano a lui con più rispetto.
Mentre i suoi compagni venivano torturati e massacrati, lui subiva sempre la misura più lieve, meno duratura.
E se questo già lo faceva imbestialire, questo occhio di riguardo nei suoi confronti diventò evidente quando arrivò la lettera di suo padre.
Quell'uomo, seduto nei suoi salottini di seta e velluto rosso, mentre discuteva di numeri e percentuali insieme ad alte cariche della magistratura nazista, aveva mandato da Berlino al capitano delle SS Alexander Piorkowski e al tenente colonnello Martin Weiss una lettera personale per un "trattamento speciale per il figlio", dove si indicava di "riapplicare l'iniziale programma di rieducazione del 1933 ideato da Himmler" e di "tenerlo a Dachau finquando non sia esorcizzato dalla sua follia rivoluzionaria adolescenziale".
Inoltre indicava che "se il programma avesse successo, arruolatelo nelle vostre file e trattatelo come vostro pari."
Aveva riletto quella lettera molte volte nell'ufficio del caporale, aveva memorizzato quelle frasi, mentre lo stomaco si chiudeva e il disprezzo lo animava nel profondo.
Come osava decidere della sua vita? Suo padre aveva sempre cercato di farlo diventare una copia di sé, e lui lo aveva sempre rigettato, allontanandosi sempre e disprezzando chiunque notava la somiglianza tra i due.
Una somiglianza solo apparente.
Wilm avrebbe sempre voluto scappare, come aveva fatto Helma, che adesso sembrava una figura vaga e indefinita, il suo viso rotondo e i boccoli biondi, la sua risata cristallina e i grandi occhi turchesi.
A casa non si parlava mai di Helma, e Wilm non aveva mai capito perché sua madre non aveva mai voluto affrontare l'argomento: era scappata poco prima che "divorziasse" con il marito, ed era stata lei la causa scatenante, la sua fuga l'aveva ferita profondamente.
Sonja era stata probabilmente offesa dal comportamento di Helma, litigavano sempre nell'ultimo periodo a causa del suo nuovo fidanzato e delle sue nuove ideologie, e la madre la rimproverava, ancora influenzata dal marito, e la pregava di rimanere.
Ma Helma aveva deciso di andarsene, e Sonja aveva difeso la figlia davanti al marito fino alla morte.
Wilm amava sua madre come solo un figlio devoto può farlo: la vedeva come mentore della sua vita, partigiana della sua indipendenza, fiera, una Diana materna.
E le mancava, le mancava da morire, anche se non condivideva molte delle sue scelte, come nascondere il "divorzio" con suo padre; Nonostante fossero legalmente sposati non si vedevano mai e lui le mandava gli alimenti per Wilm, insomma si comportavano come se lo fossero.
Wilm ne era felice, più stava lontano da lui meglio era.
Si passò una mano sul viso, mentre il filmato si chiudeva e le luci si riaccendevano.
Ogni giorno doveva guardare quei filmati odiosi, ascoltare le voci dei generali e dei politici che acclamavano il regime nazista, il Führer, partecipare a dibattiti, allenarsi e eseguire estenuanti marce urlando dei motti nazionalsocialisti.
Doveva anche lavorare in fabbrica, ma per poco, e non doveva fare nulla di troppo complicato: gli davano sempre compiti molto semplici e trafficava insieme agli altri detenuti per solo 2 ore scarse, a volte lo mandavano in baracca prima di tutti.
Questo ovviamente aveva causato tanto disprezzo nei suoi confronti, ma aveva un amico: si chiamava Boris, era sloveno e doveva avere 45 anni, era basso e tarchiato, molto socievole, parlicchiava francese e si capivano in quel modo.
Molto spesso Wilm lo aveva aiutato a comprendere certi comandi tedeschi che non afferrava al volo e gli passava sempre qualche sigaretta o pasta d'avena.
Si erano conosciuti a causa di una sua affermazione durante un esecuzione pubblica nel campo di tiro, uccidevano i soldati sovietici.
Mentre le SS miravano alla loro fronte, sbeffeggiandoli e sputando sui corpi morti, dipinti di rosso come se fossero portatori della loro stessa bandiera, Wilm aveva parlato sottovoce con Boris dell'atrocità dei nazisti, ma anche dei Soviet e della rivoluzione d'ottobre, della tesi d'aprile e della venuta di Stalin.
Wilm, come aveva già detto a Ester, era contrario a tutto ciò riguardava il partito socialista, in parte perché gli ricordava la fuga di Helma, in parte perché non era concorde alle sue ideologie.
-Sei troppo giovane per essere così informato.- aveva sussurrato Boris guardandolo torvo, forse sospettoso.
Nessuno si fidava di lui, era isolato e maltrattato dagli altri perché favorito dai soldati, lo sloveno era il primo a discutere con lui in maniera così confidenziale.
Lui aveva fatto spallucce. –Devi sapere di cosa diffidare, in tutte le sue svariate forme.-
Boris annuì concorde, da lì avevano cominciato a chiacchierare del più e del meno e avevano finito per stringere amicizia.
Non parlavano solo di politica, ma anche del loro passato: Boris aveva moglie e figli laureati, e lavorava come professore in una scuola privata, almeno, prima che cominciasse a parlare della sua posizione politica in maniera disinvolta durante le lezioni.
-Prima i fascisti, poi i tedeschi.- diceva con disprezzo. –Siamo stati completamente dominati su ogni fronte, colpa di quell'incompetente di Stojadinovič.-
Data la sua posizione antifascista era stato denunciato da alcuni studenti e lo avevano portato a Dachau.
Wilm aveva solo accennato a Ester e alle loro escursioni in giro per la Germania, gli faceva male pensare a lei.
Vedeva ogni giorno miliardi di ebrei uccisi e torturati nelle maniere più malvagie e atroci, la maggior parte dei cadaveri adagiati sul carretto delle sette portavano la stella di Davide, ed era terrorizzato all'idea di cosa le fosse successo dopo la loro separazione.
Quindi reprimeva ogni cosa, come suo solito, e viveva ora per ora, chiudendo a chiave ogni ricordo che potesse possibilmente fargli del male e rompere la sua facciata di sicurezza e arroganza.
Boris aveva forse intuito altro dal suo discorso breve, e aveva ammiccato verso di lui. –Amour, toux, fumée et argent ne se peuvent cacher longuement.-
Wilm non aveva risposto, troppo imbarazzato, e aveva cambiato argomento.
Non negava che con Ester era stato stupido, e aveva tirato un po' la corda: si permetteva di ricordare solo di notte, quando non poteva essere visto dagli altri.
Era sempre stato consapevole di dare sui nervi all'ebrea, ma sapeva anche che era innamorata di lui, non riusciva a nasconderlo, soprattutto quando aveva avuto quella pseudo-relazione con Krista.
Aveva sempre avuto successo con le ragazze, non lo negava, ma non aveva mai provato un sentimento forte come quello che provava per la rossa.
Più volte durante la sua permanenza a Dachau la pensava e le mancava, e le sue fantasie andavano un po' oltre e se ne vergognava perché lei era così... casta.
La guardava dai sottecchi mentre pregava in yiddish, la mattina lo Shaharit, e di pomeriggio il Minha.
Si sorprendeva perché lo faceva così spesso che cominciava a ricordare anche qualche parola, e gli piaceva che lei fosse così fervente e appassionata, così tanto che a volte recitava la preghiera del vespro, il Ma'ariv.
La massacrava di domande, le chiedeva la differenza tra la Torah e il Talmud, cos'era la Cabala, le differenti preghiere che recitava e il loro significato, la figura di Cristo, etc.
Lei con pazienza gli spiegava tutto, ed era molto brava nel farlo, ma Wilm molto spesso le faceva domande solo per farla innervosire.
-Smettila di fare finta di non capire.- diceva lei corrugando le sopracciglia, e lui la punzecchiava.
-Se mi metto quei filacci al braccio e dondolo come fai tu, possiamo sposarci?- le diceva lui facendola andare in bestia.
-Non sono cose su cui puoi scherzare! Solo perché non credi non significa che non devi rispettare la mia religione.- diventava tutta rossa quando si infuriava, era dolcissima.
-Approposito, perché si indossano?- e la faceva parlare a ruota sul Tefillin, come si indossano, come vengono preparati e conservati e lui la guardava estasiato.
Quando si rituffava in quei ricordi felici si accorgeva di sorridere inconsapevolmente, perché la nostalgia lo riportava in mezzo alla foresta, tra gli sbuffi di condensa e le trecce rosse di Ester.
Poi, quando i soldati urlavano la mattina, si accorgeva di aver sognato, e veniva riportato brutalmente alla realtà.
Aveva paura, perché la mattina portava con se la morte: gli ebrei, insieme agli americani e i russi, erano quelli trattati peggio, bastava poco per far partire una fucilata, anche un piccolo errore.
Allora lì una scarica di terrore gli si aggrappava allo stomaco, e pensava a lei, a come la trattavano, e forse... no.
Il bisogno impellente di aiutarla, di cercarla, di liberarla diventava ogni giorno più forte.
Sapeva come uscire di lì, poteva sfruttare l'influenza del padre, ma sapeva che non se lo sarebbe mai perdonato: usarlo come via d'uscita era l'ultima opzione.
Sapeva però che doveva andarsene da lì, e doveva trovare Ester.
Aveva parlato più volte con Boris di una possibilità di scappare, e lui gli aveva riso in faccia. –Questo campo è immenso, ti scoveranno e creperai come tutti gli altri che c'hanno provato.-
Ma Wilm aveva dalla sua parte il buon tedesco, l'aspetto e la sicurezza.
Una di quelle sere aveva deciso che il 12 Marzo avrebbe attuato il suo piano, studiato nei minimi dettagli le sere di Febbraio, nella sua baracca, raccogliendo più informazioni possibili dai detenuti e dai generali, che non diffidavano molto di lui, ma se faceva troppe domande lo zittivano brutalmente.
Aveva trovato il metodo per riuscire a non farsi beccare, studiando il perimetro del campo.
Il percorso non era semplice: le baracche erano distanti dalla saletta dove si trovava in quel momento, quindi era escluso passare dalle piantagioni, un nome infausto per l'appezzamento agricolo destinato alla coltura di piante medicinali e aromatiche.
L'unica vera uscita non sorvegliata era quella degli alloggi delle SS, vicino alla zona dei forni crematori.
Sapeva che c'era un cancello dove passavano più volte autocarri pieni di soldati, sia in entrata che in uscita.
Era pericoloso, ma doveva provarci in ogni caso.
Si avvicinò al pupazzo che lo sorvegliava, iniziava la prima fase del piano: il travestimento.
Aspettò di sentire il cigolio della porta sul retro, ovviamente c'era qualcuno che comandava la cinepresa e di solito aveva abbastanza fretta da filarsela immediatamente.
Sentì il rumore della porta chiusa a chiave e i suoi passi nella ghiaia, -Che succede, Krämer?- lo chiamavano così quei bastardi, gli ricordavano sempre l'onnipresenza del padre.
Lo guardava con uno sguardo d'ebete: doveva essere più piccolo di lui e aveva la faccia ricoperta di acne, un novellino.
-Oh nulla, hai qualcosa sul viso...- affermò Wilm indicandogli un punto indefinito sulla fronte.
Il soldato si accigliò toccandosi il viso.
–Cosa?- si avvicinò ad un quadro di Hitler, studiando il suo riflesso opaco nel vetro. –Un altro?- disse riferendosi forse alle pustole rosse.
-Oh, nulla, è la tua espressione da schwanzlutscher.- con tutta la forza che possedeva afferrò e spinse la nuca del pupazzo, facendolo sbattere violentemente contro la figura di Hitler, mentre il sangue schizzava dalla fronte e il quadro cadeva a terra brutalmente, insieme ai cocci di vetro.
Il soldato piombò al suolo, privo di sensi.
Per fortuna la stanza era insonorizzata, quindi era sicuro che non lo avrebbe sentito nessuno, ma doveva sbrigarsi: si spogliò velocemente, strappando di dosso la divisa del soldato che respirava a fatica.
Prese gli indumenti di traliccio, infilandoli distrattamente negli arti del ragazzo, sperava dentro di se che qualcuno lo scambiasse per uno dei detenuti dandogli così più tempo.
Accanto alla figura stordita del soldato giaceva la figura storpiata del Führer, una guancia schizzata di sangue.
Si infilò il cappello riavviandosi i capelli dietro la nuca, sputando sulla figura del Cancelliere uscendo dalla saletta: cominciava la fase due.
Camminò deciso lungo il perimetro del campo, accanto a lui file di deportati erano condotti ai lavori forzati e i soldati lo guardavano di sbieco, oppure alzavano il braccio sbrigativamente.
Wilm camminava velocemente, ancora non sentiva nessun campanello d'allarme, mentre arrivava nella zona dedicata agli alloggi delle SS.
Sentiva i loro cani abbaiare furiosamente, mentre guardava quegli edifici spogli e privi di personalità stagliarsi potenti in confronto alle misere capanne di legno in cui lo facevano dormire.
Il piazzale centrale pullulava di macchine e di soldati in divisa che parlottavano del più e del meno con aria serena.
Mancava poco, e sarebbe stato libero.
Il cuore gli pulsava ritmico e la testa gli girava, inconsapevolmente aumentò il passo mentre l'ansia e i dubbi cominciavano a offuscargli la vista.
Represse ogni cosa, mentre si fermava di fronte alla grande cancellata bianca, chiusa.
Si nascose velocemente dietro al muro di un edificio color panna, mentre spiava i movimenti delle SS intorno alla zona di uscita: era tutto calmo e armonico, incredibilmente opposto a ciò che accadeva dentro il campo quotidianamente.
Strinse la mascella e il sudore gli imperlava la fronte, respirava troppo forte, deglutì.
Avanti, apriti cazzo!
Aspettò lì nascosto, dieci, quindici minuti, il tempo scorreva lentamente, ma nessun autocarro passava, nessuna macchina.
Il panico prese il sopravvento, non aveva calcolato che ci fossero dei giorni predestinati all'arrivo di reclute, non aveva pensato alle varie alternative che potevano sabotare il suo piano.
Chiuse gli occhi e si passò la mano sul viso, mentre dai grandi megafoni sparsi in tutto il campo, la voce fredda ma concitata di un uomo esclamava. –Attenzione, il prigioniero 132283 è scappato, indossa una divisa da commilitone, ripeto, il prigioniero 132283 è scappato.-
Wilm trattenne un urlo di disperazione, non poteva succedere, non di nuovo.
Si guardò intorno, i soldati erano ancora fermi ad ascoltare la voce tonante che annunciava la sua fine, scandendo ogni numero con una precisione mortale.
Doveva agire alla svelta.
Si diresse all'interno degli edifici, girando a destra e a sinistra senza correre, per non destare sospetti, mentre pensava a come poteva scappare da quel labirinto.
Ogni volta che compariva un campanello di SS sobbalzava ma cercava di sembrare incurante, e quelli gli passavano accanto non degnandolo di uno sguardo, con il fucile al braccio e gli occhi omicidi.
La sua mente correva, cercava le varie vie d'uscita, ma non ne trovava nessuna vicina, o che non fosse sorvegliata.
Sapeva in cuor suo che l'unico vero modo di uscire da lì era morto.
Boris glielo ripeteva continuamente, ma mentre pensava a lui, un pensiero cominciò ad accarezzarlo, fino a diventare concreto nella sua mente, e le sue gambe rallentarono il passo.
Le fosse comuni erano fuori dal campo.
Gli occhi gli brillarono.
Il carretto delle sette.
Cominciò a correre fuori dalla zona adibita ai soldati, ma si sentì acchiappato per il gomito, e il volto rognoso di un generale gli sputacchiò in faccia. –Dove credi di andare, feccia immonda?!-
Il cuore gli balzò alla gola, mentre veniva spinto in mezzo ad altri soldati. –In riga! Dobbiamo trovare quello schifoso prigioniero e portarlo nella sua baracca.-
Wilm era scosso, avrebbe voluto replicare, ma eseguì gli ordini istantaneamente, pallido di paura.
Cominciò a camminare in silenzio, mordendosi le labbra e osservando le scarpe nere lucide: non volevano ucciderlo.
Gli tremavano le gambe convulsamente, ma fermò quello spasmo stringendo i pugni, mentre realizzava che non lo avevano riconosciuto, e si dirigevano proprio nella zona delle baracche ebree.
Fece un grosso sospiro, mentre pian piano rallentava il passo, cercando di spostarsi in fondo alla riga scomposta formata dai soldati.
Erano tutti paralizzati, lo sguardo vacuo, marciavano velocemente, erano degli automi senza vita, macchine da guerra, e li disprezzava come non aveva mai fatto.
Aspettò il momento per defilarsi, e trovando l'ingresso di una delle tante baracche sgombro si infilò velocemente dentro,  aspettando che quel gruppo di mostri se ne andasse via.
Li sentì, i passi nella ghiaia confusi e rumorosi, si allontanarono velocemente.
Appena non ci fu più rumore si girò verso l'interno della baracca: più di 50 uomini lo fissavano, immobili, con la sclera che pareva irradiare luce propria, una luce adombrata da un terrore viscerale.
Nella casacca di traliccio bianca e azzurra, che mostrava le costole e le clavicole prominenti sotto la pelle grigiastra, spiccava il giallo della stella di Davide, un giallo così luminoso che dava ombra alle giunture e ai legamenti di quei corpi morti e animati solo dalla pietà divina.
Wilm provò pena per loro, un angoscia tale che abbassò gli occhi, pronunciando poche sillabe.
-Qualcuno sa dove sia il carretto?- non c'era bisogno di specificare, tutti sapevano di cosa stava parlando.
Un uomo giovane parlò con un forte accento polacco, disse. –E' passato da qui pochi minuti fa, sarà in giro.-
Wilm non alzò lo sguardo, ma lo ringraziò uscendo velocemente da quella sinagoga di spettri.
Il cuore era stretto da una morsa di rabbia, di angoscia, di vendetta.
Si pentì di tutte le volte che aveva anche vagliato l'idea di diventare come suo padre, perchè solo ora si era reso conto che avrebbe dovuto affrontare ogni giorno quegli occhi, gli occhi di qualcuno che implorava pietà per la sua vita, per la sua dignità.
Si riscosse dai suoi pensieri quando vide il carretto, effettivamente poco distante dalla baracca in cui si trovava, ma il suo sguardo si spostò velocemente sulla figura del piccolo Kapò, che guidava i corpi bianchi senza vita alla loro finale destinazione sotterranea.
Era un piccolo uomo robusto, calvo, un criminale, con un occhio cieco e i denti sporgenti di sorcio, non molto affidabile.
Non poteva fidarsi di lui, sapeva che avrebbe spifferato tutto ai generali per una pagnotta in più.
Lo vide mentre entrava in una baracca lentamente, e sentiva i suoi sbuffi mentre sollevava i corpi morti e accatastandoli l'uno sull'altro, aprendo le celle del bunker destinato alle torture di quei poveri uomini.
Aveva poco tempo.
Si guardò intorno, non vide nessun soldato nelle vicinanze e capì che lo stavano cercando vicino le baracche dei russi, dove era solito sostare e chiedere informazioni a un soldato, figlio di un amico di suo padre.
Si chiamava Bernd, era un tipo in gamba ma completamente soggiogato dalle ideologie nazifascite, poco perspicace e facilmente manipolabile, da cui aveva scoperto l'ingresso non sorvegliato nella zona adibita alle SS.
Non aveva tempo per pensare a quei piccoli dettagli, e cominciò a spogliarsi velocemente, buttando i vestiti alla rinfusa dentro un edificio che sapeva essere vuoto, perché da lì saliva un sentore di legna fresca: era uno dei magazzini di legna, dove molto spesso lui e i suoi compagni avevano trafficato portando sempre nuovo materiale dal bosco.
Ringraziò il cielo per quella strana e ottimale circostanza e completamente nudo corse verso il carretto, per la foga salto troppo rumorosamente sopra quei corpi freddi e viscidi, che emanavano un fetore di putrefazione che lo costrinsero a trattenere un conato.
Il sorcio si affacciò dal bunker Nacht und Nebel, chiamato così dai deportati a causa del completo isolamento a cui erano sottoposti, che li portava ad impazzire e morire di conseguenza.
Wilm trattenne il respiro, gli occhi serrati, passarono minuti che parvero ore, dove il silenzio era interrotto solo dal mugolio del Sorcio.
Vide un ombra calare su di lui e il corpo di un uomo accatastarsi sopra il suo.
Lo seguirono un altro, un altro e un altro, poi il cigolio di una porta, lo scoccare di una chiave, l'urlo dei soldati in lontananza.
Era salvo.

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⏰ Last updated: Jan 06, 2022 ⏰

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