Chapter 12

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ASHLEY

Quel corridoio non mi era mai sembrato tanto lungo e cupo nonostante ci fosse una finestra ogni tre passi che dava sulla città sotto quel grattacielo a venti piani e sebbene da piccola ci passassi molte volte per andare a trovare mio padre. Mi sembrava un luogo inesplorato mai prima d'ora.

Continuavo a camminare avanti e avanti, passo dopo passo, ma nonostante ciò, sembrava che mi allontanassi sempre più dall'ufficio in cui mi dovevo recare.
Le piastrelle di marmo candido riflettevano la mia figura e il rumore sordo che producevano le mie scarpe cominciava a darmi sui nervi.

Non bussai nemmeno alla porta davanti alla quale mi fermai, entrai e basta. Mio padre era a conoscenza del fatto che sarei stata lì e non c'era bisogno di fargli sapere che ero arrivata, lo avrebbe capito quando si sarebbe aperta la porta e mi sarei seduta a quattr'occhi con lui.

Lasciai che la porta sbattesse sul fermaporta, non curandomi del rumore che potesse provocare, ma della mia reazione al rivedere quell'uomo. Per quanto avessi potuto prepararmi mentalmente, non sarei mai riuscita a stare tranquilla davanti a lui.

Lo vidi seduto sulla sua poltrona, mai una piega sulla camicia o la cravatta blu storta. Si vedeva che era sotto il controllo di mia madre, soprattutto per l'apparenza.

Appena si rese conto che la porta si era aperta, alzò lo sguardo verso di me e si alzò in piedi. Né lui né io riuscimmo a sorridere, o per lo meno a fare un cenno di saluto, mi indicò soltanto la sedia su cui mi dovevo sedere.

<<Sono sollevato dal fatto che tu ti sia davvero presentata qui oggi, mi erano saliti i dubbi che tu non venissi neppure>>

<<Ricevere una chiamata alle sette del mattino che mi dice che mio padre mi vuole parlare con giorni d'anticipo al suo presunto giorno d'arrivo mi ha un po' destabilizzato>> risposi senza peli sulla lingua, sembrava che oggi anche lui fosse sincero.

<<Lo so bene, Ashley. Sono venuto a conoscenza della tua prossima gara solo da qualche giorno, ma io ho pensato che fosse opportuno, da bravo genitore, parlare con te prima della tua partenza>> parlava come se un piccione viaggiatore gli avesse dato questa notizia e lui ci fosse rimasto male. Come se lui davvero si interessasse a me e a quello che facevo, da bravo genitore come aveva detto.

<<Ti ringrazio per il tuo interessamento, ma non è opportuno ora. Perché mi hai chiamato qui? Che cosa devi dirmi?>> la mia scocciatura era quasi palpabile nelle mie parole, ma come potevo non esserlo? L'ultima volta che mi aveva invitata a fare qualcosa insieme, mi aveva chiamata per ingraziarsi dei clienti, non perché volesse davvero passare del tempo con me.

<<Capisco la tua frustrazione>> cominciò a dire.

<<No, non la capisci. Non la capirai mai>> lo bloccai.

<<Perchè non la posso capire? Dimmelo così posso venirti incontro>> le sue parole continuavano a volermi fuorviare e ci stavano riuscendo.

<<Non potrai mai capire come mi sento adesso, come mi sono sentita prima di entrare da quella porta, perché tu sei mio padre>> mi sfogai urlando perchè era l'unica cosa che riuscivo a fare. L'unica azione sotto la mia sfera d'influenza celebrale. L'unica che conoscevo con cui sfogarmi, buttando fuori tutto.

<<Tu hai mai pensato a come ci siamo sentiti io e tua madre, dopo che a settimane dal tuo ritorno in Michigan abbiamo scoperto che non eri più in California? Venendolo a scoprire da una persona che non centra nulla con la nostra famiglia poiché nostra figlia aveva dimenticato di dirci cosa avrebbe fatto della sua vita, dove avrebbe vissuto?>>

Saudade Wherever I GoWhere stories live. Discover now