[03] basket ball

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"Preferisco rinunciare, che giocare una partita truccata che sono già sicuro di perdere."

⸻ 𝐵 ⸻

Non ero mai stata una di quelle brave ragazze tutte rosa e fiori che uno si aspetta di vedere all'inizio di una storia. Una di quelle con i capelli sempre in ordine e setosi, i vestiti candidi e stirati al limite dell'inimmaginabile mentre si comportava come l'educata figlia che era.

Nella mia vita era tutto andato storto. Già solo la mia nascita era anomala: mia madre, Steph, non aveva voluto tenere Vance, figuriamoci me, che ero più piccola. Mio padre l'aveva legata in una stanza fino al travaglio, slegandola solo per accompagnarla in bagno e per farla mangiare, e ci aveva partoriti entrambi in casa.

Per essere un buon figlio in quella casa dovevi imparare a renderti utile fin da bambino, a cinque anni, quando ti insegnavano a rollare le canne o a fregare gli spacciatori per avere più roba a meno soldi.

Diversamente da me, Vance odiava i nostri genitori. Li odiava così tanto che, quando la mamma era sparita per l'ennesima volta, si era arrabbiato con me perché, alla tenera età di nove anni, avevo saltato scuola per cercarla in tutte le stradine e i posti bui di Hawkins.

Oppure quando papà si era quasi volatilizzato per la sesta volta in un anno, ero andata da lui, in lacrime, e Vance mi aveva detto: «Ehi, Aria, che stai facendo? Piangi per Frank?»

Quasi come se fosse una colpa.

Ma io non riuscivo a non volergli bene. Seppur detestassi il modo morboso in cui li cercavo ogni volta in cui sparivano, era inutile fingere che non li amassi, nonostante fossi ripetutamente finita in ospedale per colpa loro, durante la mia infanzia.

I miei ultimi sedici anni – e anche gli unici che avevo vissuto – si erano divisi in tre diverse sezioni: l'ingenuità, il malessere e l'accettazione.

L'ingenuità era quando, da bambina, passavo ore e ore, soprattutto di notte, a vagare per le strade di quel buco che nonostante tutto chiamavo ancora casa, una bustina di oppiacei rubati alla nostra vicina, una donnina di ottant'anni parzialmente cieca e con molti problemi di udito, stretta tra le dita, alla ricerca di Steph o Frank.

Che ci fosse la grandine, la pioggia, il vento o la neve, io indossavo i miei vestiti pesanti e andavo in strada. Vance spesso non c'era, perciò ero da sola.

Una volta, Frank aveva provato a scambiarmi per una birra e uno spinello che voleva vendergli un noto pedofilo della zona. Inutile dire che ci sarebbe quasi riuscito, se io non gli avessi confidato di avere dell'oppio in tasca, e quello gli aveva fatto cambiare miracolosamente idea.

La mia ingenuità, basata sulla paura che Steph o Frank un giorno non si alzassero più dal pavimento sul quale ogni mattina li ritrovavo strafatti o svenuti dopo essersi ubriacati – o magari entrambe le cose, con loro era sempre tutto molto incerto – si era tramutata in malessere quando avevano iniziato a sparire per giorni, tanto che, una volta, durante gli anni della mia età prepuberale, mi ero ritrovata in mezzo ad un temporale a vagare per strada vestita con dei pantaloncini, delle scarpette e una vecchia maglia sporca, dopo aver girato per tutti i bar e aver visitato persino il pronto soccorso e l'obitorio di Hawkins alla ricerca di Frank.

Lui era tornato a casa un mese dopo, chissà da dove.

La nostra conversazione era stata breve, e quasi disturbante, per una ragazzina di poco più di undici anni. 

«Dove sei stato, Frank?», gli avevo chiesto. 

«Ti importa davvero, Steph?» Mi chiamava sempre così, perché ero uguale alla mamma. «Io non ho mica chiesto di restare intrappolato in questa casa con due inutili figli ingrati.»  

𝐃𝐀𝐃𝐃𝐘 𝐈𝐒𝐒𝐔𝐄𝐒 » 𝑩𝒊𝒍𝒍𝒚 𝑯𝒂𝒓𝒈𝒓𝒐𝒗𝒆Where stories live. Discover now