[04] high

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"Il lupo perde il pelo, ma non il vizio."

B

Non ero una ragazza che si notava facilmente, di solito. Beh, se mi infilavi in una mandria di ragazzini di dieci anni che trovavano nell'urlare frasi da completi idioti un buon passatempo, o mi avvicinavi ad un gruppo di modelle perfette, allora sì, riuscivi a notarmi.

Ma, in una stradina della parte marcia della piccola e subemersa Hawkins, dove trovare lavoro era più difficile di trovare un'ascia per strada – e non è che fosse un buco di cittadina dove la sovrappopolazione era il problema principale dopo la definitiva chiusura della fabbrica di caramelle alla ciliegia che distava a solo mezz'ora da qui e ci riforniva quasi quotidianamente (tutta Hawkins si era chiusa in un lutto profondo, quando la notizia spopolò da una boccaccia sporca di pettegolezzi ad un'altra altrettanto affamata di stupide notizie in cui trovare un appiglio per affondare i denti e dimenticare la noia della sua miserabile vita) – e vivere di droghe più o meno pesanti e più o meno mal tagliate era molto più divertente che rinchiudersi in degli stupidi uffici con indosso dei soffocante tranci di stoffa cuciti malamente insieme che venivano rivenduti a prezzi fuori di testa, che stringevano la gola e ti impedivano di respirare, costringendoti ad immergerti nella paura attanagliante che, se tu avessi compiuto un movimento falso, le cuciture mal imbastite si sarebbero aperte e tu saresti rimasto in mutande, davanti a tutti.

Ma, se in un liceo straboccante di ammassi inutili di carne e arroganza, del tutto privi di cervello – come Billy Hargrove, per farvi un esempio più che lampante –, ero una delle poche persone a cui nessuno faceva ancora caso (chissà per quale miracolo); in una stradina laterale semi nascosta da alcuni vecchi cassonetti stracolmi di spazzatura dall'odore nauseante, simile a quello di un cadavere in decomposizione, ero ancora più invisibile.

Cosa ci facevo lì?, vi starete chiedendo. Domanda banale. Ma la risposta, era ancora più ovvia: cercavo Frank. Di nuovo.

Setacciai ogni crepa e granello di polvere procurato dallo sfregamento delle pareti contro qualunque cosa, alla ricerca della minima traccia che potesse sussurrarmi che Frank era stato lì, anche solo per una manciata effimera di secondi scattanti e nervosi.

Ma non c'era niente di familiare, niente che, in ogni altra occasione, mi aveva mostrato la strada, guidandomi da lui come se fosse un piccolo esserino sovrannaturale appollaiato pigramente sulla mia spalla, che bisbigliava quale direzione prendere e in che punto svoltare.

Sgusciai in un'altra stradina laterale ancora più sporca e maleodorante, dove grossi e ingombranti sacchi della spazzatura erano stati abbandonati lì dalla squallida tavola calda sulla via principale, con avanzi di pessimo cibo dal profumo nauseante che intossicava i polmoni peggio di una decina di sigarette fumate nell'arco di un'ora; questo, ahimè, – in realtà non me ne fregava un cazzo – non impediva ai barboni di immergere le loro sporche e callose mani, magari anche ferite, in quel tripudio di piatti scadenti che potevano benissimo già essere andati a male e papparseli come se fossero seduti al tavolo più importante del miglior ristorante di New York City, e gratis. Mi guardai ripetutamente intorno, strisciando contro un muro e imboccando altre viuzze, poi lo vidi: Frank se ne stava mezzo accasciato accanto a delle scale, probabilmente più che strafatto.

Lo raggiunsi a passo svelto, mentre trattenevo tra le labbra una sfilzata quasi interminabile di imprecazioni più che colorite che mi baciavano la lingua, spingendo oltre la carne morbida della mia bocca nella speranza di essere modellate dalla mia voce, far vibrare le mie corde vocali ed essere trasformate in parole colme di rancore che avrei volentieri vomitato addosso ad un padre presente ma assente, che se ne stava lì, inerme, imbottito di pillole e forse anche di alcolici. Volevo offenderlo, dirgli tutte quelle cose che spingevano violentemente contro quella barriera, ma sapevo che l'unica cosa che avrei ottenuto in seguito era l'amaro sapore che avrebbero lasciato sulla lingua, impastandomi la bocca senza più mollare la presa.

Perciò mi limitai a premere ripetutamente la punta della mia scarpa contro la sua coscia, facendo traballare la gamba.

Alzò il capo dopo una serie infinita di secondi ticchettanti nella testa, sbattendo le palpebre pesanti sugli occhi familiari con quelle ormai abitudinarie ragnatele rosse scarlatte ad abbellire quelle iridi glaciali. «Che vuoi?», farfugliò con la bocca secca e la gola rauca, il tono basso per la sete.

«Ti porto a casa, no?», risposi ovvia. Mi chinai, passandogli un braccio dietro la schiena, per aiutarlo a tirarsi su.

«Non te l'ha chiesto nessuno», chiosò, facendo il peso morto. Non voleva permettermi di aiutarlo, come sempre. «Non ho bisogno di te. Non mi servi.»

***

Mi stavo ritoccando il trucco un po' troppo marcato, specchiandomi nel piccolo bagno accanto alla mia camera da letto, dove Steph giaceva svenuta da un paio d'ore, sul pavimento sporco. L'odore acre di alcol si sentiva nonostante ci fossero due porte chiuse, e quello del vomito non aveva intenzione di abbandonare la stanza in cui mi trovavo, anche se Frank aveva vomitato lì prima di pranzo, ed erano quasi le ventidue e trenta.

Arricciai il naso quando il nauseante profumo che proveniva dalla bottiglia di whiskey posata sul bordo della vasca da bagno, in equilibrio, mi solleticò fastidiosamente le narici, appiccicandosi alla mia pelle e impregnando i polmoni delle note familiari che ti attorcigliavano lo stomaco quando quel liquido bruciante ti scorreva nello stomaco.

Portai le labbra di lato in una smorfia infastidita, passando le dita tra le ciocche bionde che avevo decolorato proprio quel pomeriggio, arruffando i miei capelli già del tutto fuori posto.

Sistemai bene la linguetta degli anfibi e tirai su e giù i due lati del vestitino che indossavo, prima per scoprire un po' le gambe e slanciare la mia figura, e poi giù per assottigliare il punto vita. Cinque, sei, sette volte. Al diavolo, pensai all'ottava, lasciando perdere.

Al piano di sotto, la squillante voce di Nathaniel, un po' roca per tutte quelle sigarette che fumava quotidianamente, mi richiamò, il tono tranquillo, invitandomi a darmi una mossa e scendere di sotto.

Dopo aver preso un grosso respiro, scivolai quasi sulle scale, scendendole a due a due, e atterrai con un tonfo piuttosto marcato sul pavimento di legno, sotto l'occhiata divertita dell'amico di mio fratello. Una risata sfuggì dalle sue labbra, baciandogli la gola, roca e bassa.

Chi mi aveva convinta ad andare a quella cazzo di festa? Avevo già cambiato idea.



***
Eccoci qui, finalmente, in un nuovo capitolo di DADDY ISSUES!
Scusatemi se ci ho messo un po', ma ho ancora qualche altro giorno straripante di cose da fare e poi, finalmente, potrò tornare a pubblicare più spesso (perlomeno, fino all'inizio della scuola).
Che ne pensate?
Cosa credete che succederà nel prossimo capitolo?
Cercherò di aggiornare anche ENZO e Red Lips, in questi giorni; spero di riuscire, ma non vi garantisco niente. (Se scorrete un po' indietro nel mio profilo tiktok @/redlips_wattpad, trovate un video tra Ness, Acher e Eddie che spoilera un pezzettino del prossimo capitolo!).

Ci vediamo presto, spero.
Chiara – e Aria e Billy.


(Tra poco metto uno spoiler del prossimo capitolo di DADDY ISSUES!)

𝐃𝐀𝐃𝐃𝐘 𝐈𝐒𝐒𝐔𝐄𝐒 » 𝑩𝒊𝒍𝒍𝒚 𝑯𝒂𝒓𝒈𝒓𝒐𝒗𝒆Where stories live. Discover now