❻. Furia colpevole

228 29 109
                                    

Anastasia passò il giorno seguente a casa, libera dagli impegni ospedalieri. Si svegliò tardi, convinta che un po' di buon sonno rigeneratore l'avrebbe aiutata. Un raggio di sole le accarezzò gli occhi. Cercò di dormire avanti, anche con la luce puntata su di sé, ma non ci riuscì. Prese la sveglia per controllare che ore fossero.

Le 11:36?! Spalancò gli occhi, sorpresa. Le andava bene svegliarsi tardi, ma così tardi le avrebbe rovinato i piani per lo studio. Si gettò fuori dal letto, fece una colazione rapidissima con una merendina dal gusto troppo chimico, si vestì con le prime cose che trovò, mise dei libri e il tablet in uno zaino e uscì di fretta da casa.

Non era in pace da ormai troppo tempo. Da quando aveva iniziato l'università la sua vita era stata un rincorrersi di esami, di lavori da svolgere in poco tempo, di monotonia angosciante, di esclusione sociale. Non capiva neanche lei come riusciva ad andare avanti. Molto spesso si era chiesta se una vita diversa, meno complicata, avrebbe fatto per lei.

Arrivò in un'aula studio dell'università e scaraventò i libri su un tavolo con così tanto rumore che tutti gli altri studenti la fissarono indignati.

Cazzo, devo stare calma. Riordinò i libri sul tavolo e sistemò gli evidenziatori per ordine di colore, in maniera maniacale. Riprendi il controllo.

Aprì una pagina del libro di semeiotica, e controllò quante sbobine aveva perso mentre era in ospedale. Quarantacinque?! Si buttò, affranta sulla sedia. Com'era possibile? Era stata solo una settimana a tirocinio. Si sorprendeva sempre di più dei ritmi malsani della facoltà, che tutti giustificavano dicendole che "Quando sarai un medico dovrai affrontare cose ben peggiori". Si infastidì a ricordare quella frase. Avrebbe fatto quello che doveva fare al tempo giusto. Che senso aveva rovinarsi la vita in anticipo?

Sospirò, aprì la prima sbobina. Quindici pagine. Le fissò a vuoto per una ventina di minuti, finché non si sentì le lacrime agli occhi. Nessuno attorno sembrava interessarsi, ma lei le gettò nuovamente dentro. Si sentiva una persona così diversa quando era a tirocinio. Era riuscita ad essere la vera versione di sé stessa: forte, caparbia, ma, soprattutto, buona. Non capiva perché studiare la rendesse così triste, troppi pensieri negativi navigavano nella sua testa quando cominciava a leggere quelle pagine. Non c'era ragionamento, umanità, empatia, solo memoria asettica. Pensò che Zotti sicuramente, quando ancora era uno studente, si era trovato perfettamente in linea con quel metodo di insegnamento arido. Lo immaginò come lo studente perfetto, colui che prendeva il massimo dei voti perché riusciva a distaccarsi completamente dalla materia e a non credere che dietro quelle parole ci fossero persone vere, con storie vere, non solo molecole e reazioni. Un po' lo invidiò. Sarebbe stato forse meglio essere insensibili?

Anastasia rimase a fissare il materiale di studio per altri venti minuti. Quando si rese conto che nemmeno oggi avrebbe combinato qualcosa, raccolse tutto e tornò a casa.

Si addormentò fino alle 9 del giorno seguente, per sopprimere i pensieri che la stavano predando.

Doveva tornare in ospedale per il turno della notte quel giorno. Si guardò allo specchio e notò delle occhiaie violacee che le contornavano gli occhi. Non aveva mai avuto le occhiaie. Si sentì debole, si allontanò dallo specchio e andò in cucina a prepararsi la cena.

Aprì il frigo e si rese conto che non aveva fame. Chiuse il frigo e prese un misero pacchetto di cracker.

Andò a sistemare le sue cose e si sedette sul letto. Non poteva presentarsi così. Indossò le cuffiette e ascoltò della musica vivace per riprendersi.

Ce la puoi fare anche oggi. Fallo per i pazienti. Sei l'unica che crede in loro come persone e non come malattie.

Si alzò e tirò un urlo. Dal nulla improvvisò un balletto sulle note di una canzone latina e prese la sua borsa, pronta a partire.

𝕀𝕃 ℝ𝔼ℙ𝔸ℝ𝕋𝕆Where stories live. Discover now