03 - L'OSPEDALE (1/2)

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AMBER

La luce del sole filtra le tende e mi scalda la spalla ormai quasi guarita.
I raggi creano giochi di luce sul pavimento rendendo questo luogo quasi apprezzabile.

Finché il cellulare vibra e quando lo afferro c'è un messaggio, è da parte di mia madre. Titubante decido se aprire subito la chat e vago col pollice sospeso sullo schermo. Quando mi convinco e pigio sulla notifica comprendo di aver preso la decisione sbagliata. "Scusa tesoro ma non posso venire neanche oggi, c'è stata un'emergenza all'azienda, verrò uno di questi giorni lo prometto", scrive. Un'altra delusione.

Entra Anna, l'infermiera che da una settimana a questa parte è diventata mia alleata contro il cibo disgustoso dell'ospedale.

Infatti, quando si avvicina, appoggia sul mio letto il solito vassoio con quello che sembra essere tutto fuorché puré e broccoli. Intravedo come sempre il suo incentivo sotto forma di cioccolatini per terminare quell'obbrobrio.

<Ricorda di mettere la pomata> mi dice prima di salutarmi con un sorriso ed uscire dalla stanza.

Non mi piacciono gli ospedali, mi lasciano addosso la speranza spezzata delle persone che confidano fino all'ultimo che una vita si salvi. Da quando Josh ha avuto una brutta ricaduta gli ospedali mi fanno questo effetto. Inizialmente avevo paura potesse finire male, era a un passo dallo spezzare la promessa... no, non devo nemmeno pensarci perché lui sta bene adesso. O almeno è quello che continuo a ripetermi dal suo ultimo episodio.

A interrompere questo mio pensiero è una persona che bussa alla porta.

<Avanti!> grido prima di rimettermi velocemente a posto la maglia.

JACK

Perlustro la stanza con circospezione e mi accorgo subito del vassoio di cibo completamente intatto. C'è qualcosa che non va, è turbata. Ha sempre fatto così, anche quando eravamo piccoli.

Come quella volta in cui, a otto anni, rifiutai la sua proposta di giocare a nascondino perché dovevo uscire con dei miei amici. Quella sera non toccò cibo ma in quell'istante rimase talmente offesa che giurò che, se fosse riuscita ad attingere nuovamente alla da noi soprannominata ''riserva nascosta di caramelle'' nell'ufficio di nostro padre, l'avrebbe tenuta tutta per sé.

L'ho definita così perché nostro padre normalmente teneva una ciotola colma di caramelle sulla scrivania ma, da quando io e Amber ne avevamo scoperto l'esistenza, si accorse che improvvisamente cominciarono a sparire. Dovette spostarle su una mensola molto alta per dei bambini di otto anni ostinati come noi che, desiderosi a tutti i costi di averne una manciata, erano disposti a tutto. Morale della favola? Con lei non si scherza, mai dirle di no a nascondino.

<Ciao, come va la spalla?> le chiedo per smorzare la tensione.

<Molto meglio, non fa male> mi risponde, ma so che mente. Quando dice una balla o si sente in imbarazzo si sfiora convulsamente la punta del naso con il dorso della mano.

Ed è proprio quello che inizia a fare adesso. Però decido di non infierire ulteriormente sulla faccenda. Amber ha sempre odiato essere compatita, potrebbe letteralmente rompersi un braccio e fingere di non provare nulla, affrontando chiunque provi a impietosirsi con un'espressione sorridente sulla faccia.

<Ti va di guardare un paio di foto di famiglia per vedere se c'è qualcosa che non ricordi?> le propongo invece.
Acconsente con un movimento della testa.

Dunque mi siedo sul letto davanti a lei e sparpaglio un paio di foto sulle lenzuola in ordine casuale lasciandole il tempo per scrutarle con attenzione. Ne punta una che ritrae lei e Sara all'asilo. Mi aspetto di trovare un sorriso sulle sue labbra quando osservo il suo volto ma, ciò che intravedo, è solo un leggero senso di agitazione che si disperde nell'aria non appena sfrega le mani sulle cosce.

Subito dopo mi chiede in un sussurro chi sia, quasi vergognandosi della sua domanda. Mi affretto a spiegarle nella maniera più genuina possibile che si tratta della sua migliore amica.

Le racconto che in quella foto non si conoscevano da molto, eppure erano già avvolte da un legame indissolubile. Comincia a sfiorare convulsamente la tempia sinistra e sul suo viso si dipinge una smorfia di dolore.

Il dottor Jefferson mi aveva avvisato che avrebbe dovuto ''combattere con mal di testa persistenti, vertigini, difficoltà di concentrazione e insonnia'' testuali parole. È evidente stia cercando di ricordare.

Di punto in bianco, mi viene in mente una loro foto più recente così rovisto nella scatola contenente anche le altre immagini con la speranza che sia qui. La intravedo in un angolo, quindi l'afferro e gliela mostro. Si tratta di una tra le centinaia di foto che mi obbligarono a fare quando trovarono una vecchia polaroid a casa. Un pomeriggio memorabile, davvero.

<Io, ecco...ci sto provando ma non ricordo, scusa> mi risponde.

<Non c'è nulla di cui ti devi scusare> le ricordo, ancora un pò scosso per la situazione.

Poi l'occhio deve esserle caduto su una foto che raffigura Josh, lei e me il primo giorno di scuola, rispettivamente della seconda media, terza e quarta elementare . L'afferra e la osserva attentamente con un sorriso nostalgico impresso sulle labbra.

<È tanto tempo che non lo vedo, dov'è finito? Mi manca>.

Quando sento questa frase mi manca un battito. So che è un pensiero egoista ma speravo con tutto me stesso se lo ricordasse. Non riesco a farle rivivere tutto, non adesso perlomeno. Non so cosa risponderle, come faccio a dirle che suo fratello, la persona che dipingeva come suo eroe, non c'è più da tempo?

<Lui è in viaggio> dico tutto d'un fiato come se dovessi strappare un cerotto che con troppa lentezza farebbe ancora più male.

Fortunatamente prima che potessimo approfondire l'argomento qualcuno batte due colpi decisi alla porta.

Missing Piece - Il pezzo mancanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora