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Piove. L'autunno già si manifesta sui corpi spogli degli alberi.
Il rumore dei miei passi e gli schizzi d'acqua che si infrangono contro il marciapiede accompagnano il flusso di pensieri che comincia ad affollare la mia mente.
Mantengo lo sguardo basso, fisso sul viale asfaltato e ricoperto di foglie mosse dallo stesso vento freddo che si abbatte sulle mie spalle.

"Non ci riesco" affermo, smettendo improvvisamente di camminare.  Stringo i pugni e mi volto verso la ragazza al mio fianco. Jess ed io siamo amici da quando eravamo piccoli ed  è rimasta l'unica persona con cui sono riuscito a mantenere un rapporto nel corso degli anni.

Lei posa una mano sulla mia spalla e accenna un sorriso. Il suo sguardo è colmo di pietà. "Coraggio, Ethan" 

Sospiro e riporto lo sguardo ai miei piedi, poi guardo dritto verso l'imponente edificio dalle pareti scolorite e l'odore di piscio. Mi avvicino al cancello che lo circonda e vi appoggio la schiena. Lascio ricadere la testa all'indietro e mi faccio distrarre dal movimento lento e cullante delle nuvole che si stagliano sul cielo grigiastro.

La voglia di rientrare a scuola è lontana da qualsiasi sensazione possa provare in questo momento. Però è ancora più intensa la paura di fallire nuovamente, di non reggere il confronto col resto del mondo e soprattutto di finire per essere soffocato dai ricordi e non riuscire a risalire a galla.

Lo scorso anno diventò talmente frustrante convivere con tante preoccupazioni da non riuscire ad alzarmi dal letto la mattina, né a lavarmi o a mangiare. Non sto parlando di una mancanza di volontà, di pigrizia o nulla del genere. Si trattava di una vera e propria assenza totale di forze, di controllo sui pensieri e sulle mie emozioni. Mi sentivo come se il mio cervello fosse al di fuori del mio corpo e disconnesso dalla realtà, come se i miei pensieri fossero comandati da qualcun altro e in discordanza totale con una reale e sana percezione del mondo. Faticavo ad addormentarmi oppure mi svegliavo nel cuore della notte, sudato e con il cuore in gola. Quest'agitazione eccessiva mi tormentava per tutto il giorno. Spesso avevo l'impressione di non riuscire a respirare e la sola possibilità di dover uscire dalla mia stanza mi procurava la nausea. L'aspetto che più mi spaventò però furono delle folli e inusuali idee. Più volte attraversò la mia testa il desiderio di provare del dolore fisico che potesse sovrastare quello emotivo ed annullare qualsiasi altra sensazione. 

Mia madre si preoccupò al punto da spedirmi da uno specialista. Io non lo sopportavo. Un signore di mezza età, basso, con un paio di occhialini sempre appoggiati sul suo naso bitorzoluto. Puzzava e non mi ha mai guardato in faccia, nemmeno una volta. Non so neppure dire con certezza se abbia mai ascoltato veramente una sola parola di quel che gli raccontavo. L'unica cosa che fece fu prescrivermi dei calmanti per dormire, poi smisi di vederlo.

Quest'anno dovrei cominciare a frequentare l'ultimo anno delle superiori. Mia madre ha insisto perché tornassi a scuola, sostenendo che mi avrebbe aiutato uscire, nonché che era diventato insopportabile per lei vedermi in quello stato.

Jess mi raggiunge, posizionandosi di fronte a me per richiamare la mia attenzione.

"Cosa ti spaventa tanto?" domanda in seguito.

Attendo qualche secondo prima di guardarla, cercando di trovare le parole giuste. Io però una risposta non ce l'ho. Non lo so di cosa ho paura. Forse di tutto. 

Mi limito ad alzare le spalle e scuotere la testa.

Lei mi prende una mano. Le sue piccole dita sono fredde. Le mie tremano e vorrei solo infilarle nelle tasche della felpa.

Jess si incammina verso l'ingresso, trascinandomi con sé. A me sembra di essere paralizzato. Le ginocchia mi tremano e sento di poter cadere da un momento all'altro. Non sento più le braccia e un vortice si sta espandendo nel mio stomaco. Ci sono troppe persone. Sento i loro occhi puntati contro, le loro voci insopportabili che pronunciano parole crudeli.

Smetto di camminare all'improvviso, costringendo la mia amica ad arrestare il passo bruscamente.

"Ethan!" esclama, mollando la presa sulla mia mano.

Io la guardo negli occhi azzurri e scuoto la testa.

"Andiamo via" la supplico con la poca voce che riesco a far uscire dalle mie labbra.

Lei mi guarda qualche secondo, si volta verso la scuola, poi mi guarda di nuovo. Sospira e prende nuovamente la mia mano tra le sue. "Non preoccuparti, ci sono io. Se qualcosa va storto siamo sempre in tempo a filarcela"

Mi piace stare con lei perché mi ascolta, cerca di capirmi , di sostenermi e soprattutto non mi giudica, mai.

La guardo, cercando conforto nei suoi occhi. Lei mi sorride e stringe le mie dita tra le sue. 

"Allora?"

Sbuffo e mi mordo le labbra nervosamente. Andiamo.


If They Knew The Pain  [#wattys 2018]Where stories live. Discover now