Capitolo quattro

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Capitolo quattro

Mi dirigo verso il rumore attutito in salotto, in punta di piedi per non essere vista. Quando attraverso la porta l'unico termine che mi viene in mente è: bolgia.

Sembra di essere in una fossa infernale o in qualche cerchio dell'inferno dantesco.

I cuscini sono sparsi per il pavimento, il tappeto è spostato e tutte le sedie sono al muro. Il divano è stato portato al centro della stanza e sul marmo, il marmo che io lucido in ginocchio un giorno sì e l'altro pure, sono cosparsi pop corn e bevande di ogni genere mentre un cumulo di quelle che sembrano giacche sono buttate alla rinfusa nei vari schienali delle sedie.

Per non parlare dell'ammasso di sudore e cravatte sul divano. Cinque uomini sono seduti, o meglio dire stravaccati, sul mio divano e con i piedi sul mio tavolino basso. Proprio le prime due cose che io e Arran abbiamo deciso di comprare insieme e che, tanto per la cronaca, ho pagato io. Stefan, mio fratello, guida la carica.

«Cento euro per questa partita!», urla, non si sa a chi, ignaro della mia presenza, «ho proprio bisogno di comprare della lingerie nuova a mia moglie!».

«Zitto, idiota, perderai come sempre!», esclama uno dell'allegra compagnia.

Inizia a farmi male la testa, proprio dove Neal mi ha colpita. Piego la testa in maniera che so inquietante.

D'un tratto una mano si posa sulla mia spalla. «Riccioli d'oro, stai bene?».

Mi volto e, nonostante gli arrivi poco sotto il petto, cerco di sollevare il mento e mostrarmi determinata. «Hai visto il porcile che avete combinato?».

«Non preoccuparti», dice e mi sorpassa, andando a sedersi accanto a mio fratello, «perché invece non ci porti delle altre patatine, riccioli d'oro? Tornando dal bagno le ho dimenticate».

Sto per dirgli dove può ficcasi le patatine, ma prima che io apra la bocca qualcuno urla verso di me. È un uomo sulla trentina, con grosse chiazze di sudore sotto le ascelle fasciate dalla camicia blu. «Ehi, riccioli d'oro!», mi sfotte, sputacchiando, «attenta agli orsi!».

Tutti prendono a ridere, tranne Arran e mio fratello. Sono troppo distratti dallo schermo della TV che proietta un'auto sparata a tutta velocità che investe quelle che sembrano prostitute. «Vai a farti fottere!», gli ringhio contro e sparisco in cucina.

Ve le do io le patatine, brutti coglioni.

Prendo un pacco di patatine e, infuriata, lo apro svuotandolo dentro una ciotola. Esco dalla cucina a passo di carica, diretta in salone.

Arrivata a destinazione prendo un pugno di patatine e le lancio in aria.

«Tenete, cuccioletti! Ecco la pappa, piccoli miei!», urlo mentre lancio dappertutto le patatine.

Arran e Stefan, finalmente, mi degnano della loro attenzione: mi guardano sconvolti mentre gli altri deficienti prendono al volo le patatine con la bocca, come fossero davvero dei cani randagi.

«Oh, no, amico, si avvicina l'apocalisse», mormora Stefan nell'orecchio di Arran.

È l'ultima cosa che sento, prima di prendere altre patatine, altre bevande, e spargerli per tutta la casa, imbrattando pavimenti, finestre, sedie, letti, bagni. Mi cambio, indossando dei jeans puliti e un maglione, poi prendo la borsetta e la giacca e mi dirigo in salotto. Trovo Arran intento a sistemare il casino, mentre Stefan e gli altri si fanno i fatti loro. Ignoro il suo sguardo pentito.

«Sto andando a trovare mia madre», dico, con un finto tono dolce, «ci vediamo dopo, doc».

Esco fuori di casa e noto che Arran non mi ha seguita. Lo spio dalla finestra e lo vedo intento a sistemare. Sto per andarmene quando la vedo. È sotto il portico, luccica e sembra che possa andare molto veloce. Mi avvicino e vedo che le chiavi sono appese. Bingo! La tolgo dal cavalletto e ancora spenta la trascino fuori dal cancello. Quando sono abbastanza lontana, l'accendo.

Lui mi salveràWhere stories live. Discover now