Capitolo diciassette

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Capitolo diciassette.

È assolutamente vero: volere è potere. Infatti, dopo solo una settimana, ho organizzato tutto: io ed Arran faremo un mese di volontariato in un orfanotrofio a Bonn, l'unico rimasto aperto. Oggi, in una calda e confortante mattinata di settembre, io e il mio uomo stiamo varcando il cancello di una struttura pericolante. Di fronte a noi, un enorme giardino trascurato, fa da base ad un edificio ad un solo piano, il cui intonaco ingrigito e pieno di crepe ha sicuramente visto giorni migliori. Sulla soglia di un grande portone di legno ci attende un uomo, tutto sorridente. Mentre scendiamo dall'auto, cerco di ricambiare il suo sorriso ma ciò che ne esce è solo una smorfia sbilenca. Osservo Arran: anche lui sembra abbastanza nervoso. Ci guardiamo per qualche secondo e, dopo esserci presi per mano, raggiungiamo il tizio dai piccoli occhi castani.

«Arran Laspek ed Ella Nigars, giusto?», ci domanda, dondolando sui talloni.

Annuisco.

«Sì, siamo noi», conferma Arran.

Lui porge la mano prima a me, poi ad Arran, mentre dice. «Mi chiamo Maicol. Sono molto felice di fare la vostra conoscenza. Non mi capita tutti i giorni che ben due persone vengano di propria spontanea volontà ad aiutarmi».

«Lo immagino», gli dico.

«Dove sono i bambini?», chiede Arran, con un tono ansioso.

«Nella stanza comunitaria», risponde Maicol, «prima di invitarvi ad entrare, devo dirvi che tra un mese esatto a partire da oggi, i bambini saranno addottati».

«È una bella notizia», rispondo io.

«Sì che lo è», fa Maicol, raggiante, «adesso vi precederò».

Arran ed io annuiamo in sincronia e stringendoci la mano, seguiamo Maicol.

Entriamo nell'edificio e subito mi stringo nel cappotto. Del torpore che c'era fuori, nemmeno l'ombra. Tutto l'ambiente che ci circonda è angusto, sporco e fa un freddo cane. Sento un sibilo, vicino alle finestre: ci sono spifferi ovunque. Mi guardo intono, mentre il volontario accompagna me ed Arran nella stanza comunitaria. Il mio uomo mi stringe un fianco mentre mi attira a sé e si guarda intorno con un'espressione indecifrabile.

«Quando sono stati montati questi infissi?», chiede, improvvisamente.

Il volontario continua a camminare. «Non ne ho idea, signor Laspek, so solo che quando sono arrivato qui, più di dieci anni fa, erano gli stessi. Suppongo abbiano la stessa età delle edificio, che risale al dopo guerra. Qui venivano ospitati i figli dei soldati caduti in guerra che non avevano famiglia, dopo la morte di Hitler».

«Si muore di freddo», intervengo io, «non ci sono riscaldamenti?».

Il volontario mi lancia un'occhiata eloquente. «O i riscaldamenti o le medicine, signorina Nigars, lei cosa sceglierebbe?».

«Se ci fosse sufficientemente caldo non ci sarebbe bisogno di medicine. Scommetto che le malattie più diffuse sono quelle respiratorie», dice Arran, stringendomi ancora di più a sé.

«È così, signor Laspek», conferma il volontario, «sono contento che lei sia un medico. Qui...diciamo che in inverno le cose non sono facili. E l'igiene...lo scorso mese molti bambini hanno preso i pidocchi in giardino. Non abbiamo soldi per la disinfestazione purtroppo».

Arran continua a guardarsi intorno. «Quando è stata l'ultima volta che un imbianchino ha messo piede qui dentro?».

«Da dieci anni a questa parte è successo solo una volta, ma abbiamo tinteggiato solo la stanza comunitaria», risponde, «come il resto delle cose che ci sono qui, la tintura delle altre stanze risale alla costruzione dell'edificio nell'ottobre del quarantacinque».

Lui mi salveràDove le storie prendono vita. Scoprilo ora