Capitolo 17 - Changes

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Omnia mutantur, nihil interit. (Tutto cambia, nulla perisce.)

- Ovidio.
"Metamorfosi"

~◇~

"Perché mettere in piedi qualcosa di inverosimile col rischio di non essere creduti?" 
Trevor non si chiedeva altro da una settimana, ormai.

Sdraiato sul fondo del letto nella propria camera, il ragazzo teneva un braccio dietro la testa e con l'altro faceva ondeggiare il suo vecchio orologio d'oro come un pendolo.
Era in maniche di camicia e pantaloni scuri, con le gambe che sporgevano fuori dal materasso dalle ginocchia, e gli stivali ai piedi che battevano sul legno della pediera.

Stava attendendo che avesse inizio quella specie di riunione della White Rose, o adunata, assemblea o come accidenti volevano chiamarla.
Aveva avuto una mezza idea di uscire nel frattempo, quel pomeriggio, ma gli era venuto un fastidioso mal di testa e per di più aveva cominciato a piovere a dirotto, e non sembrava che avesse intenzione di smettere a breve.

Il monile, che teneva per la catenella, dondolava pigramente in un movimento ipnotico. Lo vedeva, ma non lo guardava davvero, come se i suoi occhi passassero attraverso l'oggetto.
Era perso nei propri pensieri, ma questo non impedì che quel dondolare gli facesse stancare gli occhi nel giro di pochi minuti.

Si riscosse solo allora e li chiuse, abbassando il braccio per interrompere l'azione. Dopo pochi istanti, però, li riaprì e iniziò ad analizzare annoiato l'orologio da taschino, tenendolo nel palmo della mano.

Non aveva mai capito perché fosse stato tanto speciale per suo padre.

Il quadrante era abbastanza semplice, con le ore riportate in numeri romani d'oro - gli aveva lui spiegato che lo fossero -, i quali scintillavano sullo sfondo avorio, popolato da altre decine di piccole virgole (nella stessa tinta dei numeri) che indicavano i minuti.

Le lancette, anch'esse dorate, si inseguivano sullo sfondo della mostra, adorna di intricati disegni che non era mai riuscito a decifrare. Si trattava di sottili filamenti dall'aria delicata, probabilmente solo decorativi. Gli stessi, ricoprivano tutta la cassa e il coperchio.

"Tempus edax rerum" era inciso sul retro, con eleganti ghirigori.

- Il tempo divora ogni cosa, - lesse il ragazzo tra sé, forse per la milionesima volta. Era una frase di un tale Orazio, un poeta romano vissuto molti secoli prima. Così gli aveva raccontato suo padre.

Si era sempre chiesto il perché di quella frase così pessimistica, oltre a quello dell'attaccamento al monile.
Non che non ci avesse provato, ad avere spiegazioni.
Com'era ovvio, non le aveva ottenute.

Ma c'erano talmente tante cose che, in quella storia, gli erano poco chiare, che ormai aveva smesso di interrogarsi a proposito da tempo.
A conti fatti, ripensare a suo padre gli faceva solo del male, nonostante cercasse di superarlo.

Forse doveva essere così; era destinato a non sapere.

L'unica cosa che iniziava a farsi strada nella sua mente, riguardo l'argomento, era la consapevolezza che quelle tre parole non erano altro che la dura realtà, benché non gli piacesse ammetterlo. Quante volte, quelle poche lettere, non erano state altro che una macabra predizione?

Bussarono alla porta, interrompendo le sue riflessioni.
Doveva essere Cedric che veniva a chiamarlo, come gli aveva chiesto di fare.

Il ragazzo si alzò e afferrò il panciotto, che aveva lasciato sul bracciolo di una poltroncina. Lo infilò mentre si avvicinava alla specchiera, mettendo l'orologio in tasca, e si vide i capelli arruffati.
Li sistemò velocemente alla bell'e meglio e andò ad aprire, rimanendo di sasso per qualche attimo.

L'orologio dei ricordiWhere stories live. Discover now