38. Life's a bitch

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E così, per l'ennesima volta, contro ogni mia previsione e contro ogni mia preghiera, mi ritrovo in un ospedale, nello stesso ospedale privato in cui Michael è stato ricoverato pochi mesi fa.

E, per l'ennesima volta, ho infranto le mie promesse e le mie ripromesse, ho infranto la mia stessa parola. Controvoglia, ovviamente. Perché la voglia di non entrarci più, in un ospedale, continua ad essere tanta. Soprattutto se il motivo è così tanto sgradevole. Come questo. Che poi, in una situazione simile, dire sgradevole è dire nulla. Perché la realtà è che mi sembra di essere nel bel mezzo dello spazio, a pochi passi da un buco nero che cerca di risucchiarmi dentro di sé. Una parte di me, quella stanca, vuole farsi risucchiare, vuole sparire, una volta per tutte, vuole smettere di pensare e di soffrire. Ma un'altra parte di me, quella che sembra conoscere bene la speranza, vuole aggrapparsi ai pianeti vicini, alle stelle vicine, alla sua stella preferita, quella che risplende di più, ma anche quella che brucia di più; questa parte di me vuole vivere, nonostante la paura di farlo. Perché vivere fa più paura che morire.

Mi mordicchio il labbro inferiore con foga, certo che, presto o tardi, i denti si conficcheranno così tanto nel sottile labbro inferiore che mi faranno perdere un po' di sangue, amaro sulla mia lingua, ma non tanto amaro quanto la situazione in cui mi ritrovo.

Alzo lo sguardo dalle mie mani sudaticce, che non riescono a stare ferme, che sono agitate, e lo punto sul ragazzo di fronte a me, capelli scuri che ricadono e coprono il viso, poggiato nell'incavo nel collo del suo ragazzo. Calum sta piangendo, le lacrime gli ricadono giù per le guance paffute e finiscono dritte sulla maglietta di Ashton. Ma Ashton non sembra esserne interessato. Il suo unico interesse è il ragazzo al suo fianco, il suo unico interesse è sussurrargli parole probabilmente di sostegno all'orecchio, parole capaci di tranquillizzarlo abbastanza da evitargli un attacco di panico.
Sono felice che Ashton e Calum si siano trovati. E spero non si perderanno mai.

Dopodiché la mia attenzione si sposta su Hailee, seduta al mio fianco, che prende una mia mano e la stringe tra le sue, di tanto in tanto stringendo un po' più del dovuto, quasi costringendomi a ricordare la sua piccola presenza al mio lato.

Sospiro, leggermente, asciugando con la mano libera le lacrime che non vogliono smettere di rilasciare i miei occhi stanchi, che inizio a pensare ne abbiano viste troppe.

Al fianco di Hailee, ci sono Sophie e Maisie, che sono arrivate il prima possibile, uno sguardo sconvolto stampato addosso, i capelli spettinati, i primi vestiti che hanno trovato nell'armadio infilati addosso.

E di fronte alle due, un paio di sedie a dividerli da Calum e Ashton, ci sono i genitori di Michael – e la sua sorellastra, Ashley, meglio conosciuta come Halsey ­–, che sembrano così distrutti che ho persino paura a sfiorarli col mio sguardo, ho paura che si disintegrino col solo peso dei miei occhi addosso.

Li ho conosciuti quest'estate e ho subito ritrovato nei loro tratti quelli di Michael.
E adesso fa male guardarli, perché rivedo lui, rivedo i suoi occhi, il suo naso, le sue labbra, rivedo i suoi capelli e il suo modo di muoversi.

Fa male, fa tutto male.

Mi fa male la schiena, per le ore passate ad aspettare che i medici ci dessero notizie – che ancora non ci hanno dato –, seduto su questa piccola sedia in questo corridoio bianco di quest'ospedale privato.

Mi fa male la mano, per il modo in cui Hailee la sta stringendo, che inizio a non capire se sia per me o se sia per lei. Non che cambi, visto che dà palesemente sollievo ad entrambi.

Mi fanno male le labbra, a causa di tutti i morsi e a causa della secchezza e delle pellicine staccate via e del sangue che ha preso a fuoriuscire e che continuo a leccare via senza interesse.

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