ça ne casse pas trois pattes à un canard

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Passarono tre giorni di pioggia a Seoul.
Le nuvole nere corrodevano il cielo più che mai, il sole aveva paura di uscire dal suo confortevole nascondiglio di nubi e i suoi raggi venivano poco a poco soffocati e sostituiti da una nebbia di luce fiacca, stanca e spossata. Le gocce reiniziavano a scendere blandamente, bagnando le strade, i fiori e i tetti. Dalla sua finestra Jimin vedeva le case dei suoi noiosi vicini -la signora Yuppeun era purtroppo deceduta quattro notti prima- e la stradina di triste asfalto sulla quale Yoongi era venuto a prenderlo al loro primo appuntamento, sempre se poteva definirsi tale. Se lo ricordava come se fosse successo la sera prima, sentiva ancora i nervi tirati a quel ricordo, avvertiva i palmi sudati e le gambe tremanti. Ricordava di aver fatto entrare Yoongi nel suo appartamento e poi aver iniziato ciò che entrambi sapevano fosse proibito. Un gioco senza regole che li aveva portati alla rovina, alle lacrime e all'autodistruzione. Jimin guardava dalla finestra senza nemmeno osservare i giardini sempre verdi del suo vicino giardiniere e quelli pieni di gerani della Signora Sin. Guardava altrove, niente che riguardasse la sua realtà di tutti i giorni. La tazza di té che si era preparato quella mattina fumava sotto il suo viso, ancora troppo bollente per essere bevuto. Pensó che conoscere Yoongi fosse stato esattamente come bere una lunga e sofferta sorsata di quel té bollente. Per bramosia s'era scottato e il dolore era rimasto nel tempo, impossibile da cancellare o nascondere. Aveva avuto la storia d'amore più turbolenta della sua vita, la più bella, con il ragazzo più attraente e misterioso di tutta Seoul. Era iniziato tutto con quelle labbra sulla sua mascella, sul collo, sul petto e avvolte sulla sua intimità, come se volessero aprirgli un portale per un universo dove tutto era lecito e bellissimo. Un universo che purtroppo non erano mai riusciti a raggiungere. Ma la domanda che Jimin si poneva troppo spesso era se quell'universo pieno di meraviglie esistesse davvero o fosse mai esistito.
Era l'ennesima volta che sentiva le sue mani sul corpo, il calore sulla pelle e la sua voce incastrata nelle orecchie. Si ricordó dal «sei bellissimo» fino al «sei perfetto» e dei suoi ansimi sommessi appena approfondiva il contatto tra quelle lenzuola che sapevano di lui. Poi, si ricordó di quella frase, un cimelio che sarebbe rimasto sempre al primo posto di tutte le frasi che aveva memorizzato e analizzato in tutta la sua intera esistenza. «Mi sono innamorato di te fin dal primo momento in cui mi hai rivolto la parola, Park Jimin.» Erano le parole più belle che avesse mai udito da qualsivoglia voce, e la sua sembrava stata creata per l'unico scopo di pronunciare almeno una volta quella frase. Il proprio nome non gli era mai stato così bene in un "mi sono innamorato di te" che contava più di mille milioni di Won, sebbene si fosse sempre e solo trattata di un'impudica bugia. L'aveva chiesta lui, si era ridotto a tal bassezza da mendicare una menzogna per curare tutte le ferite che quel ragazzo aveva inflitto sul suo petto. Eppure, quell'ultima notte Yoongi gliel'aveva baciato quel petto. Era una continua contraddizione, un conflitto violento e fin troppo insensato anche solo per essere, per esistere. Loro non erano. Non erano mai stati. E non saranno mai. Jimin lo sapeva, ma del futuro non gli era mai importato nulla seriamente. Nel suo futuro lui ci vedeva Yoongi, ma Yoongi non si abbinava al suo futuro. E lo sapeva. Aveva vissuto in un film e ora erano arrivati i titoli di coda; aveva vissuto in un'illusione e ora il mago era andato in vacanza a tempo indeterminato. Guardava quel cielo brumoso, cercando di scorgere la soluzione a tutto il dolore che il suo cuore doveva scortare tutti i giorni fuori di casa, ma nulla arrivó. Niente si fece scorgere da in mezzo alle nuvole. Erano le sei del mattino e Jimin non vedeva più la dolce signora Yuppeun che portava fuori il suo cagnolino marrone e zampettante, il quale era stato portato al canile. Guardó il marciapiede grigio bagnato dalla pioggia e, col sottofondo del rumore di ogni goccia che urtava il vetro, risentí la voce della vecchia signora rimbombargli nella testa. «Quindi, Jimin, metti sempre te stesso al primo posto, non ascoltare ciò che viene dall'esterno. Questo è un mondo opportunistico, spregevole e comunque colmo di meraviglie. Ascolta sempre la tua mente e il tuo cuore come ho fatto io a quel tempo e avrai la vita più ricca che tu possa desiderare, anche non avendo un singolo Won in tasca. E semmai dovesse capitare un disaccordo tra le due parti, pensa bene alla soluzione che ti fa tremare di più il petto.» E, con la prima lacrima che iniziò a solcargli la guancia, pensó che era Yoongi l'unica scelta che gli faceva tremare quel maledetto petto. Erano i suoi occhi tristi, era la sua pelle esangue ed erano quelle labbra da bambola che non avrebbe mai vissuto. Magari, quella volta, la signora Yuppeun si poteva essere sbagliata. Non c'era dubbio che l'avesse fatto. E Jimin aveva detto addio all'unica scelta che il suo cuore approvava. Era da così tanto tempo che non provava quella malinconia alla mattina presto, ma ormai c'era talmente abituato che si sentiva cullato da quella tristezza tanto scura e avvenente. Era come una bella prostituta, la tristezza. Ti trova, ti spoglia di tutto, usa le tue paure contro di te e crea dipendenza con la sua irresistibile suadenza. Ti porta in un mondo tuo fatto delle solite sofferenze, come una calda coperta che assicura la totale mancanza di un modo per uscirne. Jimin c'era rimasto intrappolato come un pesce tra le reti di un pescatore e non aveva nessuna intenzione di pensare a vie di scampo. Faceva male anche solo pensare di aver speranza, quella lurida luce che viene continuamente delusa e che per poco scopre un lembo di coperta nera, facendo entrare altrettanta luce. Non voleva pensare che a Yoongi importasse ancora di lui, non voleva immaginarsi di parlare con lui nè tantomeno tirare fuori quegli argomenti. Preferiva far così, rifugiarsi nei suoi ricordi. I ricordi sono posti dolorosi come delle spine di ferro e bastava poco per rimanere impigliati per sempre ad esse. Cercò di contare le volte che aveva pensato ai braccialetti di Yoongi e al motivo per il quale li portava, ma perse il conto prima di subito. Altri frammentati pensieri lo portarono di nuovo al Lotte Hotel, dove Yoongi aveva cercato di allontanarlo per la seconda volta e non c'era riuscito. Jimin capí perché Yoongi volesse mandarlo via da quella stanza e si disse anche che avrebbe dovuto farlo e non tornare più, non come aveva fatto la sera dopo il Nyam Nyam. Se solo avesse chiamato Jungkook, quella sera, tutto si sarebbe risolto e non si sarebbe ritrovato a ripensare a tutte quelle cose davanti ad un vetro bagnato. Bevve un sorso del suo té, ormai era freddo e gli ricordava vagamente le mani di Yoongi quando toccava le sue. Altre lacrime si fecero spazio sulle sue palpebre e poi, lentamente, sul suo viso candido. Jimin non aveva mai pianto così tanto per qualcuno. Ogni volta si ripeteva che quella sarebbe stata l'ultima volta, ma non lo era mai. La sua ultima volta non arrivava mai. Pensare al volto di Yoongi ora gli faceva male come le ferite che egli possedeva sui polsi. Jimin si chiese cosa le avesse provocate, ma sapeva che le sue risposte sarebbero state, da quel momento in poi, soltanto stupide ipotesi. Non riusciva a staccare gli occhi umidi e arrossati dal triste spettacolo dietro la sua finestra: a lui erano sempre piaciute le tempeste con la pioggia. Anche dai suoi occhi pioveva, ed era sempre stato convinto che quando pioveva, in realtà, si trattava di Buddha che dava l'acqua ai fiori. Non voleva essere pessimista pensando che anche il Dio stesse piangendo, ma quando aveva visto la signora Sin prendersi cura dei suoi gerani per la prima volta gli era venuta in mente questa simpatica alternativa. Pensó che in quel momento dai suoi occhi stava stillando solo acqua per dare una nuova vita alle cose e non semplicemente per una scarna delusione. Pensó che quel dolore si sarebbe presto rimarginato, come una cicatrice. Poggió la tazza del té ancora piena sul tavolo e staccó la pupilla scura da quella maledetta tempesta. Amava le tempeste, amava Yoongi, ma doveva imparare a dire basta. Si vestí e uscí di casa senza nemmeno prendere l'ombrello né la macchina. Il canile non era tanto distante da casa sua. Camminó sotto la pioggia, con le scarpe fradice che pistavano il cemento grigio scuro e la gente che gli tirava occhiate stranite. Jimin girava con il cappuccio che gli copriva quasi interamente il viso, così fradicio che faceva più male che bene, la felpa che grondava e i pantaloni già pregni di pioggia. Il suo petto era incassato tra le spalle, come se quella posizione lo aiutasse a proteggersi dalla pioggia, dal vento freddo e dalla sofferenza. Dopo un quarto d'ora di camminata, cominció a scorgere in lontananza la parvenza di una struttura comunale abbastanza spartana, ovverosia il canile. Entró in fretta in quel monolite e trovó una ragazza e un ragazzo che discutevano dietro ad un bancone di metallo smussato. Erano probabilmente fidanzati, dato come si guardavano. Jimin sapeva riconoscere gli occhi delle persone che amavano. Purtroppo, quegli occhi non erano mai appartenuti a Yoongi, per quanto Jimin avesse cercato di scorgere altro oltre alla solitudine in essi. I due stavano discutendo su dove fare le vacanze d'inverno. Lei non era bella, era una normale ragazza che si può incontrare tutti i giorni per strada o in metropolitana, ma non era nemmeno di aspetto sgradevole. Lui invece era alto, il naso sporgente e gli occhi piccoli in confronto al viso. Portava due occhiali spessi quanto un dito, ma almeno aveva un bel sorriso.

♔ velvet & silk ♔ yoonmin, vkook, namjin Tahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon