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Questo lavoro non è un lavoro. Naturalmente non lo faccio gratis, perché le bollette non si pagano da sole, ma non lo faccio neanche per i soldi. In effetti, più che come un lavoro lo vedo come una specie di missione.

Il fatto è che mio padre era un grande. Era stato un grande poliziotto, era un grande detective e purtroppo era anche un grande stronzo. Sono convinta che neanche lui facesse questo lavoro per soldi. Lo faceva perché era bravo, perché gli piaceva farlo, ma soprattutto perché era la copertura perfetta per un fedifrago seriale.

Mia madre non ha scoperto nulla per anni. Quando sei sposata con un investigatore privato ti sembra del tutto normale che tuo marito non abbia orari, mantenga un certo mistero sulle sue attività e passi un sacco di tempo con le sue clienti. Eppure, in fondo al suo cuore, lei sapeva. Come ho detto, l'intuito femminile è infallibile. Mia madre sapeva e questo le ha lentamente avvelenato l'anima. Nei quasi due decenni che ha passato con mio padre ha preso trenta chili e sviluppato una dipendenza da ansiolitici. Alla fine nessuno avrebbe potuto guardarla e riconoscere quella ragazza che da giovane sorrideva radiosa negli spot dei dentifrici. Se la verità fosse saltata fuori prima, forse mia madre avrebbe sofferto meno. Di sicuro avrebbe avuto più margine per rifarsi una vita.

Dopo il divorzio è tornata dalla sua famiglia in Svezia e mi ha proposto di andare con lei, ma io sono rimasta al fianco di mio padre. Volevo che Victor Tutto mi insegnasse a fare il suo lavoro, perché avevo deciso che la mia esistenza sarebbe stata dedicata a incastrare quelli come lui.

Mio padre mi ha addestrata finché non ho avuto le qualifiche per ottenere la licenza da detective. Mi piace pensare che l'abbia considerata una forma di contrappasso per quello che aveva fatto a mia madre, sempre che uno come lui fosse in grado di provare sensi di colpa. Poi è morto e io, oltre al suo ufficio, ho ereditato la sua casa.

Alle otto di sera rientro nel mio appartamento, al sesto piano di un condominio in un ex quartiere operaio recentemente riconvertito in zona residenziale. Ho con me due sacchetti, take away cino–giapponese nella mano sinistra e supermarket nella destra; i romanzi di Mickey Spillane non lo dicono, ma anche i detective ogni tanto devono fare la spesa. Sistemo birre e surgelati nel frigo e aspirine e assorbenti nell'armadietto del bagno. Mi sbarazzo di scarpe e pantaloni, sbottono il colletto della camicia, accendo la tivù del salotto e mi butto sul divano con una bottiglia di Kirin tiepida e una vaschetta di noodles scaldati al microonde. Questa è la casa in cui abitavamo io, mia madre e mio padre quando ancora ci illudevamo di essere una famiglia; la casa nella quale, per un certo periodo, ho abitato con mio padre dopo che lui e mia madre si sono lasciati. Una casa troppo grande per me da sola.

Infatti non sono sola.

«Ciao» dice Arturo.

Cazzo. Vive qui da dieci mesi e ancora mi dimentico della sua presenza. Inghiottendo una matassa di noodles non masticati, ricambio il saluto con un mugugno mentre cerco di nascondere il fatto che sono in mutande tirando il lembo inferiore della camicia. Non credo funzioni molto, perché noto che ad Arturo si appannano leggermente le lenti degli occhiali. Ecco un'altra situazione nella quale Sam Spade non si sarebbe mai trovato.

Arturo ha due o tre anni meno di me e una laurea in design industriale presa col massimo dei voti. È arrivato in città perché l'hanno assunto in uno studio di progettazione da queste parti; lavorano su appalto delle aziende automobilistiche, a quanto pare lui è una specie di Michelangelo degli specchietti retrovisori. Siamo entrati in contatto tramite un annuncio sul web, Arturo mi paga un affitto per dormire in quella che era la camera da letto dei miei. Aveva detto che sarebbe stata una cosa di poche settimane, il tempo di trovare una sistemazione definitiva, e invece tra un po' siamo a un anno di convivenza.

Non che mi lamenti. Quei soldi mi fanno comodo e Arturo è un coinquilino piuttosto discreto, tanto che a volte quando è chiuso nella sua stanza mi dimentico che c'è, come dimostra l'incidente di stasera. Però, a proposito di intuito femminile, sospetto che se la stia prendendo più comoda possibile nel cercarsi una casa tutta sua, come se non volesse andarsene da qui. E non sono sicura che mi piaccia il motivo.

Ora siamo seduti alle estremità opposte del divano, le mie ginocchia rivolte verso la tivù e le sue verso di me, e stiamo guardando un episodio di quella docuserie sui camionisti che rischiano la vita lungo le rotte subpolari. Arturo parla solo per fare qualche commento tecnico, tipo «Quello lì è uno specchietto elettroriscaldato, non è di serie, hanno fresato apposta i fori per gli interruttori nei pannelli laterali». A un certo punto però dice:

«Ti sta bene il nuovo taglio di capelli».

«Non mi sono tagliata i capelli» gli rispondo.

«Ah. Be', ma comunque tu stai bene con qualunque taglio».

Arturo mi manda segnali del genere da sempre, ma soprattutto da quando gli ho raccontato che sono single da due anni. Il suo problema è che ragiona da ingegnere: si ferma al dato matematico, ragazza libera uguale semaforo verde. Se ragionasse da detective si chiederebbe perché sono single da due anni.

Sullo schermo passano i credits dell'episodio e io mi alzo dal divano. Arturo mi chiede:

«Hai beccato qualche cattivo oggi?»

Anche lui, come tutti, ha una visione romantica del mio lavoro, nel suo caso penso mutuata più dalle repliche mattutine di Magnum P.I. che da Chinatown. Stavolta però non ha tutti i torti.

«Ho per le mani un cattivo davvero cattivo», gli rispondo, «e ho in programma di farlo piangere parecchio. Ciao Arturo, a domani».

«Buonanotte, Vale».

Sento i suoi occhi su di me mentre mi allontano in corridoio.

La stanza dove dormo è la stessa nella quale ho dormito per tutta l'infanzia, tutta l'adolescenza e una parte dell'università. Nel tempo è cambiata tanto quanto me, ma a cambiare è stata soprattutto la roba appesa alle pareti. Su questi muri sono passati poster di boy band, calendari, planisferi, la tavola degli elementi di Mendeleev e gli scatti paesaggistici di una fotografa in erba che si stava impratichendo nell'uso di grandangoli e teleobbiettivi. Oggi ci sono solo la mia laurea incorniciata e alcune fotografie, anche loro in cornice. Sono brutte foto, alcune parzialmente in ombra, altre scattate attraverso superfici semitrasparenti come vetrate e tendaggi, e tuttavia i volti delle persone ritratte, benché riprese da lontano, sono sempre riconoscibili. Protagonisti e ambientazioni variano, ma il soggetto di fondo è ricorrente: lui e lei si incontrano in un posto nel quale nessuno dovrebbe vederli, e invece.

Ognuna di quelle fotografie è un trofeo di caccia, il ricordo di un incarico ben svolto e la prova che ha inchiodato un codardo alle sue responsabilità, ma non è per questi motivi che le tengo appese in camera mia. Voglio avere quelle immagini sotto gli occhi tutte le mattine quando mi sveglio e tutte le sere quando vado a dormire per fissarmi in testa la lezione che mi ha insegnato questo lavoro: in amore, più spesso che no, uno più uno fa tre.

Sul muro sopra il mio letto c'è ancora uno spazio vuoto. Credo che avrò modo di riempirlo grazie a Milo Martello.

Vale TuttoWhere stories live. Discover now