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«Valeria mi ha salvato la vita».

È giovedì. Sono nell'ufficio di Milo Martello. Lui è davanti a me, la mascella sbarbata, i gomiti sul ripiano della scrivania, le maniche della camicia arrotolate fino alle curve dei bicipiti. La foto delle enormi labbra turgide alle sue spalle veglia su di noi. La mia penna è dove l'ho lasciata, nascosta in piena vista nel portapenne. Tutto è ancora com'era la volta scorsa, a parte il fatto che al mio fianco, seduto a gambe larghe sul divanetto di pelle nera, c'è Arturo.

Se proprio qualcuno doveva interpretare il ruolo del mio ragazzo nel corso di questo colloquio, Arturo era l'unico candidato possibile. Al momento non ci sono molti altri esseri umani di sesso maschile che mi conoscono a sufficienza e di cui mi fido; in effetti, nessuno. Ho chiesto a Arturo di aiutarmi e lui ha accettato con un entusiasmo perfino eccessivo. Spero non si stia calando troppo nella parte: si è vestito come se dovessi presentargli mia madre. Ha messo addirittura una camicia, lui che di solito si veste come un dodicenne.

«È successo undici mesi fa» sta raccontando. «Ero alla fermata del bus. Io viaggio sempre in bus perché non ho la macchina, anche se faccio il lavoro che faccio».

«Perché», chiede Martello, «che lavoro fa?»

«Progetto componenti automobilistiche. Sono un designer industriale».

Martello si passa pollice e indice sul mento. «Interessante. In questa fase, Valeria gliel'avrà detto, ci stiamo espandendo. Abbiamo un designer che collabora con noi da remoto, ma ci farebbe comodo averne uno in squadra».

Trattengo il respiro per un istante. Avere Arturo che lavora qui ed essere costretta a fingermi la sua ragazza per otto ore al giorno sarebbe una complicazione colossale. Poi per fortuna Arturo dice

«La ringrazio per la proposta, ma il mio grande amore sono gli specchietti retrovisori». Allunga la mano sul divanetto fino a raggiungere la mia e, sorridendo, aggiunge: «Oltre a Valeria». Sono così sollevata da ricambiare il sorriso in modo credibile.

«Certo, certo», dice Martello, «era solo un'ipotesi. Comunque, mi faccia il favore di lasciarmi i suoi recapiti prima di andarsene. Non si sa mai». Si abbandona contro lo schienale del suo trono a rotelle. «Mi scusi, l'ho interrotta. Continui pure».

«Dicevo», prosegue Arturo, «ero alla fermata del bus quando ho inghiottito un'ape».

Martello aggrotta la fronte. «Un'ape».

«Avevo la bocca aperta e si è infilata dentro» spiega Arturo. «Poteva anche essere una vespa, ma credo fosse un'ape perché il veleno delle api è una delle cose alle quali sono più allergico insieme alle arachidi, ai crostacei, alle noci, all'albume delle uova e al lattice. Sono andato giù quasi subito con difficoltà respiratorie e la faccia gonfia come un pallone».

«Terribile» commenta Martello.

«In caso di shock anafilattico grave bisogna intervenire entro quindici minuti o si rischia grosso» spiega Arturo. «Ero lì che soffocavo sull'asfalto e all'improvviso, sopra di me, è apparso il volto di una donna bellissima dai lunghi capelli rossi. Ho pensato che fosse un angelo venuto a portarmi via, e in fondo non mi sbagliavo. Lo sa cos'ha fatto?»

Martello si rivolge a me. «Cos'ha fatto, signorina Tutto?»

Già, cos'ho fatto? Non ne ho la più pallida idea: questa storia la sto ascoltando anch'io per la prima volta. Avevo chiesto a Arturo di farmi fare bella figura, ma temo che si sia fatto prendere la mano.

«Ha rubato una macchina» rivela Arturo. «Ha aperto la portiera di un'automobile parcheggiata usando una forcina, mi ha caricato a bordo e ha avviato il motore unendo i cavi. Non mi conosceva neanche e ha commesso un reato per me. Quattordici minuti dopo mi stavano servendo un cocktail di epinefrina e cortisone al pronto soccorso più vicino».

«Lei è in grado di rubare una macchina?» mi domanda Martello. Non capisco se è scandalizzato o ammirato.

«Me l'ha insegnato mio padre» rispondo, con un filo di voce. «Era un poliziotto».

«Va da sé che poi la macchina l'ha restituita» dice Arturo. «Ho degli agganci alla Motorizzazione, il minimo che potevo fare per sdebitarmi era aiutarla a risalire al proprietario. È stato un po' strano come primo appuntamento ma, sa com'è, da cosa nasce cosa. E così non ci siamo più lasciati». Mi guarda, mi sorride e mi tiene la mano. Io invece guardo Martello: è impassibile, non è chiaro se ci sia cascato e che impressione gli abbia fatto questa storia assurda.

«Insomma», conclude Arturo, «quello che voglio dire è che Valeria è una ragazza pronta a tutto pur di fare la cosa giusta. Anche a fare la cosa sbagliata».

Più tardi sono a casa, nella mia stanza, e sto parlando al cellulare. «Lunedì comincio a lavorare alla Strawman S.p.A.», dico, «mi sembrava corretto che lei lo sapesse».

«Si muova pure come ritiene più opportuno», ribatte Olivia Del Pozzo Feroldi, «da parte mia ha totale carta bianca. Solo, non dimentichi la discrezione. Come le ho detto, c'è di mezzo l'onore di famiglia».

Inizio a sospettare che la Del Pozzo Feroldi non si preoccupi tanto dei tradimenti di Milo, quanto della possibilità che diventino di dominio pubblico. Forse è normale mettere le apparenze davanti a tutto, quando sei cresciuta all'ombra di un blasone aristocratico. Non è decisamente il modo in cui ragiono io. Se avessi uno stemma ci sarebbe scritto "La verità rende liberi".

Esco dalla mia stanza e, in corridoio, incrocio Arturo. È tornato al suo solito stile: fuori le camicie, dentro le T-shirt dei personaggi manga.

«Arturo», gli chiedo, «per curiosità, sei davvero allergico alle punture delle api?»

«Non lo so», dice, «e non ci tengo a scoprirlo, mi bastano il lattice e le arachidi. Ma l'ape mi pareva un elemento più efficace a livello drammatico. Mica male la storia che mi sono inventato, eh?»

«Un po' sopra le righe per i miei gusti, ma alla fine l'unica cosa che conta è che abbia funzionato. Sono in debito con te, Arturo. Oggi mi hai fatto un favore enorme».

«Ma figurati, è stato divertente. Una missione sotto copertura, quando mi ricapita?» Si fa serio, si schiarisce la gola, si sistema gli occhiali. «Anzi, se hai bisogno che sia ancora il tuo ragazzo, io sono disponibile. Anche per un periodo di tempo più lungo. Anche molto più lungo».

«Non credo che sarà necessario, ma ti ringrazio. Sei un amico».

Gli leggo negli occhi che la parola amico non gli piace. L'ho scelta apposta, non voglio che si faccia illusioni, servirebbero solo a farlo soffrire. La verità rende liberi anche quando fa schifo.

Soprattutto quando fa schifo.

Vale TuttoWhere stories live. Discover now