18.

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«Entri e chiuda la porta».

È seduto sul suo trono a rotelle, dietro la sua monumentale scrivania. Ha entrambe le mani sul ripiano di cristallo, la sinistra aperta, la destra chiusa a pugno. Sono mani molto grandi, non ci avevo mai fatto caso. Anche le tumide labbra femminili intente a succhiare la cannuccia sulla gigantografia alle sue spalle mi sembrano più grandi e minacciose di quanto ricordassi. Cerco di chiudere la porta ma ha la maniglia bloccata, dev'essere rotta, mi limito ad accostarla. Faccio per sedermi sul divanetto di pelle nera.

«No, non si sieda».

È diverso dal solito. Lo sguardo duro, la mandibola contratta, l'asprezza nel tono, microvariazioni significative solo per chi lo conosce bene, e io sono diventata mio malgrado una delle massime autorità in materia. È diverso dal solito e nutro un pessimo presentimento a riguardo. Quelle mani sono davvero enormi e mi sorprendo a chiedermi con un brivido quanta forza siano in grado di esercitare. In piedi, immobile davanti a lui, mi sento come una ragazzina convocata nell'ufficio del preside che aspetta di sapere perché.

«Lei pensa che io sia stupido?»

E tutt'a un tratto lo so. Quelle parole pronunciate con rabbia trattenuta contengono già il seme del resto del discorso. So perché ha voluto vedermi, dove vuole andare a parare, il motivo per cui è incazzato, addirittura cosa nascondono quelle mani. So, soprattutto, di essere fottuta. L'unica cosa che non so è quale sarà la mia punizione. Inspiegabilmente non sono preoccupata, non ho paura, il mio cervello non corre a elaborare scuse o coperture o vie di fuga. Provo soltanto uno strano misto di vergogna e senso di liberazione.

«Questo lo conosce, giusto?»

Apre la mano destra a rivelare una scatoletta di plastica grigia percorsa su tre lati da due strisce di nastro adesivo nero. Certo che lo conosco, è il segnalatore GPS che gli ho piazzato dietro il paraurti della macchina qualche giorno fa. Ero sicura di averlo recuperato, ma a quanto pare non l'ho fatto.

«Dopo che ho trovato questo coso sulla mia auto, mi sono insospettito e ho fatto le mie ricerche. Ho scoperto che i genitori di Arturo non abitano in quella via. Non abitano neanche in questa città. Martedì scorso non ci siamo incontrati per caso, lei mi stava seguendo. E così ho cominciato a guardarmi intorno con più attenzione. Suppongo che anche questi siano suoi».

Solleva la mano sinistra, mostrando alcuni piccoli dischi metallici dai quali sbuca un mazzo di cavetti arricciati. Sono i microfoni che gli avevo sistemato in tutto l'ufficio. Potrei negare di averceli messi io, ma non ho intenzione di farlo. Mi riconosco colpevole. Lui si alza e aggira la scrivania.

«Forse sono davvero uno stupido. Solo uno stupido si sarebbe lasciato fregare in questo modo per così tanto tempo. Ma ora basta».

Si avvicina oltre il confine delle normali interazioni umane. Ho piedi e occhi inchiodati a terra.

«Interferenza illecita nella vita privata, articolo seicentoquindici bis del Codice Penale. È un reato perfino per una detective professionista nello svolgimento delle sue mansioni. Sa cosa farò adesso? La porterò in tribunale. Le farò revocare la licenza, le porterò via la sua attività e ogni centesimo che ha in tasca. Le toglierò tutto».

Sì, fallo. Toglimi tutto. Me lo merito.

«A meno che non troviamo un accordo».

La pressione di due dita sotto il mento mi costringe a guardarlo negli occhi. L'altra mano, con un singolo gesto, mi scioglie il nodo della cravatta.

«So che lo vuole anche lei».

Poi sento quelle mani enormi che si infilano sotto la mia gonna. La sua bocca nell'incavo del mio collo. La mia schiena contro la superficie della porta. La porta che sbatte al ritmo crescente del mio respiro. I miei respiri che diventano urla.

Nella mia testa, un solo pensiero:

"Finalmente".

Mi risveglio di soprassalto nel mio letto. Sono le tre del mattino. Sono coperta di sudore.

Non sono innamorata di Milo Martello.

Non sono innamorata di Milo Martello.

Vale TuttoWhere stories live. Discover now