7- Abience.

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Abience: (n.) the strong urge to avoid someone or something.

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Lilith.

«Ho sempre pensato che tu abbia preso l'abitudine di indossare una maschera di apatia e disinteresse per non permettere alle persone di conoscerti. Ci penso spesso e mi ripeto che sono stata fortunata ad aver avuto la possibilità di entrare nella tua vita, sono contenta che tu mi abbia lasciato la porta della tua amicizia aperta».

Rose me lo disse dopo una serata passata sul divano davanti all'ennesima maratona di Harry Potter, a cui ero costretta a partecipare almeno due volte l'anno. Non mi sottraevo a questa tortura perché amavo sentirla fare battute squallide su ogni singolo personaggio. Quelle parole rimasero impresse nella mia mente e sulla mia pelle; mi spaventò il modo in cui aveva fatto centro. Rose poteva sembrare una ragazza con la testa fra le nuvole, immersa nelle canzoni della sua collezione di CD che ascoltava sempre mentre dipingeva o cucinava, ma in realtà era sveglia, creativa, ingegnosa ed estremamente empatica.
L'empatia era una delle caratteristiche che ammiravo di più; la sua intelligenza emotiva era spiccata e attenta, a differenza della mia, che sembrava essersi arrugginita.

Era vero, fingere che non mi importasse mai di nulla era il mio modo per proteggermi dal mondo reale, dalla realtà in cui vivevo. Se avessi vacillato, se avessi mostrato un singolo accenno di debolezza, le bestie si sarebbero accanite contro di me, avrebbero fatto a brandelli la mia anima già spezzata. Se avessi fatto vedere la stanchezza dietro i miei occhi, il desiderio di fuggire da quel Paese troppo grande eppure troppo stretto per me e i miei sensi di colpa, se avessi slegato le corde con le quali mi tenevo immobile contro la spalliera di finta sicurezza, gli occhi assetati di vendetta e di sangue mi avrebbero distrutta.

Dovevo fingermi forte, dovevo simulare di non avere paura, ed ero così abile a farlo che, dopo un po', dimenticai davvero cosa significasse temere per la propria vita. Non si trattava di coraggio: aspettavo solo che si compisse il mio destino, perché sapevo che prima o poi mi avrebbero fatto fuori e a me stava bene.

E allora non dovevo permettere a nessuno di entrare nella mia vita; non potevo permettermi debolezze. Se avessi iniziato a voler bene o addirittura amare qualcuno, mi sarei scavata la fossa da sola. Non avrei retto altri sensi di colpa, non avrei sopportato l'idea di poter mettere in pericolo le persone che mi circondavano. Il fatto che avessi permesso a Rose di diventare mia amica mi tormentava spesso, ma conduceva una vita così diversa dalla mia che riuscivo a tenerla fuori da qualsiasi guaio coinvolgesse me.

Probabilmente era anche per questo motivo che rispondevo male al detective riccio e biondo seduto lontano dalla pista da ballo e che aveva già fatto avanti e indietro quattro volte da una sala all'altra. O magari gli rispondevo male perché il suo sguardo curioso, di chi aveva troppe domande, mi infastidiva a tal punto da dovergli impedire di aprire bocca per farmele.

Non avrebbe mai ricevuto da me le risposte che cercava, ma sapevo che nel suo lavoro era fin troppo bravo. Se un giorno avesse voluto risposte, le avrebbe cercate e trovate da solo. Ora che sapeva che ero lì sotto il suo naso, sarebbe stato ancora più semplice scavalcare il muro dei miei silenzi. La sua fama lo precedeva, e non ero stupita che la polizia lo avesse contattato per quel caso. I suoi occhi color nocciola chiaro, che alla luce del sole assumevano venature di un verde intenso, scrutavano ogni dettaglio della stanza con una precisione quasi inquietante, come se volesse trattenere ogni sfumatura di verità nel palmo delle mani.

MIZPAHWhere stories live. Discover now