32- Wonderwall.

81 18 196
                                    

Wonderwall: (adj.) someone you find yourself thinking about all the time; a person you are completely infatuated with.

── ⋆⋅ ☾☼ ⋅⋆ ──
Julian.

Lauren Wright, coi suoi capelli a caschetto tinti di biondo platino, gli occhi celesti e le guance paffute che sembravano gonfiarsi ad ogni sorriso, si distingueva per il suo stile informale. Indossava una semplice t-shirt acqua marina e pantaloni cargo chiari, accompagnati da un paio di Converse rosse. Nulla del suo abbigliamento poteva essere associato a quello di una segretaria, specialmente se confrontato con l'eleganza delle altre che solcavano i corridoi.

«Mi scusi, detective» mormorò appena tornò da me con il cellulare tra le mani. «L'ho fatta attendere troppo».

«Nessun problema, so bene quanto possano essere urgenti alcune chiamate» le sorrisi, nell'inutile tentativo di metterla a suo agio. «E puoi darmi del tu».

«Oh, ne è sicuro?»

«Certo» annuii.

Tuttavia, notai che era ancora più tesa di prima. Era nervosa, rigida come un pezzo di legno dal mio arrivo, e anche se cercava di nasconderlo dietro sorrisi forzati, era evidente come la luce del sole che la situazione la rendesse agitata.

«Possiamo andare» allungò la mano, indicando il lungo corridoio che avremmo dovuto attraversare per giungere all'ufficio di Edward Davis.

Lauren sembrava detestare profondamente quel posto; lo capivo dalla sua espressione di orrore mentre scrutava le pareti semplici e il pavimento lucido. Era evidente anche che non aveva molta simpatia per chi ci lavorava, perché raramente rispondeva ai saluti, soprattutto se provenivano da uomini in giacca e cravatta.

«Quindi, tu lavori qui?» chiesi, continuando a camminare al suo fianco.

«Sì» rispose, ma non fu abbastanza convincente.

«Conosci Lilith Andersen? Mi ha detto proprio lei di chiamare te» le sue labbra si assottigliarono e alzò le spalle, nascondendo un certo interesse nel nome che avevo pronunciato.

«Più o meno».

«Siete amiche?»

«No» replicò.

«Che strano...» sussurrai. «Eppure, ero convinto di sì» le mie parole, dette con lo scopo preciso di attirare la sua attenzione e leggere insicurezza nei suoi occhi, vennero prese così seriamente che si fermò sul posto, voltando tutto il suo corpo verso di me.

«Te lo ha detto lei?»

«Anche se fosse?» corrugai la fronte, fintamente confuso. «Non c'è bisogno che me lo dica direttamente per capirlo».

«Cosa?»

«Io non farei mai il nome di una persona che neanche conosco, probabilmente non ricorderei nemmeno il suo nome» alzai le spalle. «Soprattutto se sembra tutto fuorché una segretaria».

Lauren esaminò il suo abbigliamento senza mostrare alcun segno di imbarazzo, ma poi mi guardò con un'aria indignata, quasi a chiedermi cosa ci fosse di male nei suoi vestiti. Il fatto era che non c'era nulla di sbagliato nei suoi pantaloni e nella sua t-shirt; erano semplicemente capi d'abbigliamento che risultavano completamente fuori luogo nel contesto in cui ci trovavamo, e nel quale, ipoteticamente, lei lavorava.

«Odio i tacchi» scrollò le spalle. «E anche le gonne a tubino».

«Capisco» annuii dubbioso.

«D'accordo, sii diretto» sospirò, facendo qualche passo verso di me. «Sono una persona che si confonde facilmente, preferisco domande dirette senza giri di parole» ammise.

MIZPAHWhere stories live. Discover now