18- Tacenda.

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Tacenda: (n.) things better left unsaid; matters to be passed on in silence.

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Lilith.

La pressione sulle spalle era opprimente, con troppe notizie e incontri indesiderati. Deglutii, cercando di superare il groppo in gola, e mi appoggiai al bancone, stringendolo con le mani, mentre per un attimo la testa mi girava. Tutto sembrava così assurdo; non avevo nemmeno notato la presenza di Julian quella notte, poiché ero rimasta nella sala 2 a lavorare in solitudine.

«Le serve qualcosa, detective?» domandò Trevor con un tono acido, anche se sembrava essere tornato in sé. «Magari un drink?»

Trevor aveva sempre faticato a gestire la rabbia e, in modo paradossale, si infuriava maggiormente con noi quando ci trascuravamo o ci trattavamo senza dignità. Come tutti noi, avrebbe dovuto intraprendere un percorso di terapia con un professionista, ma le circostanze non lo permettevano.

Guardava Julian con tale intensità che chiunque al suo posto sarebbe fuggito dopo aver chiesto scusa; tuttavia, Julian non si scompose minimamente, sembrava quasi sfidarlo con uno sguardo e la sua aura tranquilla rimase invariata. Si allontanò leggermente dal bancone, infilò le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. Non portava il nostril, i suoi tatuaggi erano nascosti e il distintivo spiccava in vista; ero certa che, se si fosse voltato, avrei notato anche la sua arma.

«Ti ringrazio, ma non bevo quando sono in servizio».

«Lei è in servizio anche di notte?» punzecchiò Trevor, lo maledii mentalmente: dare corda a Julian era l'ultima cosa che doveva fare se voleva toglierselo di torno.

«Io sono in servizio quando mi pare e piace, è il bello di lavorare per conto proprio» borbottò con un sorriso soddisfatto sul viso. «Dammi del tu, potremmo avere la stessa età».

Trevor mi lanciò uno sguardo in cerca di una reazione, ma io non risposi. Voleva capire se fossi infastidita quanto lui; ma, quando si rese conto che non avevo intenzione di incrociare i suoi occhi, riprese a parlare, rassegnato.

«In che modo posso esserti d'aiuto?» Trevor cercò di mantenere un tono neutrale, ma dal modo in cui stringeva tra le mani il bicchiere e uno strofinaccio bagnato, non sembrava particolarmente calmo. Julian se ne accorse e sospirò, togliendosi dalla faccia quell'espressione di sfida.

«Sto conducendo delle ricerche importanti riguardo il caso della signorina Rachel Kelly: io e un mio collega pensiamo che il proprietario di questo locale sia in qualche modo coinvolto, o magari potrebbe essere anche lui una vittima. Il signor Maxwell Foster è il proprietario di questo posto da ben cinque anni, ma colui che dovrebbe dirigere gli affari del locale è il suo socio, Edward Davis, dico bene?»

Trevor alzò le spalle in segno di indifferenza, ma notai che le sue mani stavano sudando. Era maestro nell'arte di mantenere un'apparenza apatica, una tattica  che conoscevo bene e che, forse, avevo imparato proprio da lui nel corso degli anni.

«Sì, certo».

«Ho già parlato con alcuni dei vostri colleghi nell'altra sala e con il signor Luke: tutti dovrete venire nel mio ufficio nei prossimi giorni. Preferirei mi lasciaste il vostro numero per potervi contattare e darvi informazioni sul luogo e sull'ora del colloquio» disse lentamente e tirò fuori il cellulare dalla tasca del suo giubbotto. «Potrei prendere i vostri recapiti telefonici dai contratti di lavoro, ma preferirei foste voi a darmeli».

MIZPAHDove le storie prendono vita. Scoprilo ora