9. Dylan - Aiutare o non aiutare? È questo il dilemma (parte seconda)

355 53 153
                                    

Porca zozza, perché aveva dato retta alla sua migliore amica?

Dylan spostava il peso da un piede all'altro, mentre aspettava che Travis uscisse dalla palestra. Aveva i crampi allo stomaco per il nervosismo.

Travis mi ammazzerà, me lo sento. Anche se si fingeva spavaldo, in realtà quell'ammasso di muscoli lo spaventava: era imprevedibile.

I membri della squadra l'avevano salutato con cordialità, mentre tornavano al dormitorio. Tutti sapevano quanto lui e Drew fossero amici, quindi era normale vederlo spesso agli allenamenti o fuori dalla palestra, come in quel caso. Non aveva detto niente a Drew, perciò si era nascosto quando lui se n'era andato.

Strinse la tracolla e si sporse appena dall'angolo in cui si era rintanato.

Quella sera di inizio ottobre era tiepida, piacevole. Delle falene sbattevano contro il vetro giallo delle lampade da giardino, che illuminavano fiocamente i sentieri tra gli alberi e le panchine. Il cielo, una tela blu e viola, iniziava a essere punteggiato da qualche stella solitaria.

Un cigolio metallico fece saettare il suo sguardo verso le porte.

Travis stava rovistando nel borsone con il capo chino. I capelli, divisi da una riga in mezzo, gli accarezzavano gli occhi. La tuta arancione e bianca dei Fallwood Wolves era la sua unica nota di colore.

Immerso in quella dicotomia di luci e ombre, sembrava meno spaventoso del solito. Più... umano, forse.

Di nuovo, la compassione gli stritolò il cuore.

Dylan sospirò. Chiuse le dita sulla cinghia della tracolla e, dopo aver contato fino a dieci, fece qualche passo avanti. Le sue sneakers calpestarono delle foglie sull'acciottolato, producendo uno scricchiolio, e Travis sollevò la testa di scatto.

Quando il suo sguardo si posò su di lui, trasalì. La sorpresa sfrecciò sul suo viso. Smise di rovistare nel borsone e indietreggiò d'istinto. I suoi lineamenti si fecero duri, di pietra, inscalfibili. Nelle sue iridi scure come la notte scintillò la paura.

«Ciao.» Dylan mosse la mano. Esibì un sorriso rassicurante, giusto per fargli capire di essere venuto in pace e di non voler litigare. «Possiamo parlare?»

Avanzò e, di riflesso, Travis arretrò.

«Cosa vuoi?» chiese, aspro.

«Innanzitutto, per favore, non mi picchiare.»

Travis affilò lo sguardo. «Dipende da quello che devi dirmi.»

Dylan ridacchiò e sperò di non far trapelare l'ansia. Accidenti, forse l'avrebbe davvero preso a pugni.

«Mi piacerebbe parlare di sabato sera.» Usò un tono dolce nel tentativo di rabbonirlo.

Travis emise un verso simile a un ringhio, non proprio rassicurante. «Vattene» sbottò. Le sue spalle si irrigidirono, i pugni erano stretti lungo i fianchi e i muscoli delle braccia erano contratti, ben visibili sotto il tessuto della tuta.

Dylan, però, era determinato a farsi ascoltare. «Senti, ci sono già passato.»

«Non paragonarmi a te.»

Dylan si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo. «Oh, smettila. Non sei più credibile» controbatté, perdendo le sue nobili intenzioni. Quel ragazzo tirava fuori la sua parte più intrepida – e stupida, considerati i rischi.

Travis si incupì. «Cosa cazzo vuoi?»

«Aiutarti» si lasciò scappare. Dio, quanto suonava patetico? Meritava qualche schiaffo, in effetti. Magari sarebbe tornato in sé.

Losing MatchDove le storie prendono vita. Scoprilo ora