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<<Signorina Smith?>>

Alzai lo sguardo chino su di una rivista presa a caso, fra un grosso mucchio accatastato accanto alle mie gambe, che puntualmente ogni tre o quattro secondi invertivo di posizione, agitandole con un fastidioso su e giù.

Vidi che la voce, di una giovane dottoressa dai capelli raccolti e dal viso pulito e fresco, proveniva dal fondo di un lungo corridoio delicatamente illuminato, quello che per diverso tempo avevo fissato insistentemente. Mi alzai velocemente, prima che cercasse un altra testa abbassata da chiamare, fra le decine di persone intorno a me e mi diressi da lei senza indugiare.

Avevo aspettato circa un'ora prima di essere convocata, mi erano stati fatti diversi test, analisi e tutto ciò che serviva per un check-up completo perché era l'unica cosa che avevo chiesto di fare quella mattina.

Mi ero preparata all'Aids, all'epatite, ad un bambino per giunta, ma nulla di tutto ciò mi venne elencato: lei è sana come un pesce signorina, aveva detto molto dolcemente la donna di fronte a me, anche se nel suo sguardo leggevo più di una semplice frase di rassicurazione, ma effettivamente il mio fisico stava benone (a parte qualche livido ancora piuttosto violaceo) forse dovevo spiegarle che il mio problema si annidava internamente, nella mia testa, ma presi semplicemente la busta di referti e con un saluto affettuoso me ne andai dalla stanza, prima che quella puzza nauseante da ospedale mi facesse perdere i sensi.

Presi il vecchio ascensore che si trovava subito fuori dalla sala d'attesa, senza troppi pensieri o ansie di qualunque genere, ma non appena il mio sedere appiattito si era posato sul sedile dell'auto un brivido lungo la schiena mi fece gridare improvvisamente. Urlai per la disperazione, per la rabbia che si era incastrata nella mia voce in tutti questi giorni e così sputai fuori tutto quanto, presi a pugni il volante, calciai e mi dimenai come se servisse a qualcosa, come se potesse aiutarmi in un qualche modo a cacciar via quella terribile sensazione che mi portavo dietro o a tirare fuori tutte quelle maledette cose che non riuscivo a ricordare.

Nessuno sapeva niente, nessuno mi avrebbe guardata diversamente, mi sentivo sola insieme al mio segreto. Ero io che mi guardavo con occhi diversi e lo specchio era diventato un nemico comune, della mia paura e del mio viso. Che cosa diavolo era successo di così orribile? Mi domandavo costantemente e soprattutto: come mai non ricordavo niente di niente?.

Riesco a ricordare ancora molte, innumerevoli cose di quella giornata incasinata: se da una parte la mia paura di aver contratto qualche malattia o di aver subito qualche lesione era stata decisamente annientata, dall'altra c'era una paura ancora più grande che stavo per affrontare. Il bosco.

Volevo andarci e l'avrei fatto a tutti i costi, anche se ogni singolo, minuscolo ed insignificante muscolo del mio corpo mi scongiurava di non farlo, le mani erano salde sul volante, la schiena era come incollata al sedile e la mia testa mi costringeva a fare pensieri contrastanti a quello di dirigermi lì, ma non c'era nulla da fare e soprattutto niente che potesse, in quel momento, concedermi uno schiaffo di dissenso per quello che stavo per fare.

Nessun ferito torna sul posto in cui gli è stato fatto del male, nessun malato torna in ospedale per la mancanza, nessuna vittima torna dal proprio rapitore per controllare la situazione e nessun morto torna in vita per riguardare quel momento, mentre io, la più stupida del villaggio, avevo ceduto ad ogni mio istinto primordiale che mi sussurrava di correre lì, camminare fra quegli alberi, respirare di nuovo quel sapore acre, umido, cosi che qualche ricordo mi si potesse in qualche modo presentato davanti, come un fottuto regalo inaspettato, ma che non desideravo affatto.

Prigioniera di una Bugia || #Wattys2016Where stories live. Discover now