Capitolo 2

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Mi persi nei miei pensieri anche quella volta.
Mi capitava spesso di intrappolarmi ed impigliarmi nel labirinto astratto delle mie paure e delle mie preoccupazioni.
In testa mi frullavano milioni di cose contemporaneamente, milioni di parole, ma tutto ciò che usciva dalla mia bocca era il silenzio e così anche quel mattino non parlai e me ne restai zitta. Zitta mentre quella donna mi osservava e con il pollice premeva insistentemente sullo scatto della penna biro, che stringeva con fare nervoso fra le sue dita.
Zitta mentre fuori mille aspettative attendevano un mio accenno di miglioramento.

"Paige! Allora vogliamo cominciare?"

Io non volevo cominciare, io non volevo essere lì, non avevo voglia di parlare con quella donna, non avevo voglia di rivivere ogni volta quelle emozioni.
Semplicemente non mi andava di risentire tutto da capo.

"So che è difficile per te parlarne, ma l'unico modo per superare un trauma non è evitarlo, anzi, bisogna affrontarlo e parlarne fino a quando raccontandolo non proveremo quasi più dolore"

Per me quelle parole non avevano senso, non conoscevano ragione.
Quelle parole non avevano un filo logico, lei le pronunciava perché non sapeva quello che si provava, lei seppur essendo una psicologa, non poteva capire come mi sentivo io.
Lei non poteva perché non aveva vissuto quello che avevo dovuto subire io sulla mia pelle.

Come potevo sentirmi meglio parlandone se facendolo rivivevo quel ricordo?
Se parlandone mi sembrava di essere lì di nuovo, se solo pensandoci io tremavo e le lacrime mi assalivano pungenti e vibranti fino a farmi male gli occhi, fino a sentirli pesanti e stanchi perché non avevano più voglia di piangere.

Eccole! Stavano uscendo di nuovo senza neanche avvisarmi, senza neanche chiedermi il permesso, perché le lacrime sono fatte così: sono dannate e dispettose.

Anche quella volta arrivarono subito senza farsi attendere ed io ero lì che le accoglievo inerme, le lasciavo passare e scivolare sulle mie guance fino ad assorbirsi nella pelle.
Si asciugavano e scomparivano, ma io le sentivo, erano lì, sul mio viso, che pesavano.
Ne captavo il dolore perché quelle piccole, copiose, fredde e apparentemente innoque gocce, facevano male, così male che io sentivo come degli aghi pungermi la pelle, ma era solo una sensazione, una sensazione però così forte da sembrare reale e concreta.
Riuscivo a sentire degli spilli invisibili perforarmi, svuotarmi di ogni gioa e riempirmi d'acqua.
Acqua amara e salata, di cui il sapore imparai a memoria per quanta ne avevo bevuta, per quanta ne avevo assorbita nell'ultimo e buio anno della mia vita.

"Io non ce la faccio"

Riuscii appena a sussurrare soffocando a fatica quel pianto e alzandomi di scatto dalla poltroncina rossa su cui ero seduta.

Restai in piedi per alcuni secondi, fissai quella donna dai capelli biondi che non mi voleva male, anzi, lei voleva aiutarmi, ma ero io che non ero forte abbastanza per uscirne fuori.
Ero io che forse mi sentivo troppo ferita dalla vita, perché io non meritavo quello che mi era successo e se ero divenuta quella ragazza strana e chiusa in un suo inesistente mondo, non era solo colpa mia.
Si, in parte forse lo era perché avrei potuto reagire e avrei potuto provare a riprendermi, ma ero troppo fragile per farlo, ero troppo debole e mi sentivo così piccola ed indefesa che non riuscivo ad alzarmi da quel baratro, da quel precipizio in cui ero caduta, in cui mi avevano spinta.

Lui mi aveva spinta, lui era il solo e unico colpevole delle mie paure, lui era la causa dei miei malesseri.
Era colpa sua, ma ero anche io che glievo avevo permesso.

"Paige adesso siediti e iniziamo"

Strinsi i pugni per trattenere i singhiozzi, osservai quello studio, i piccoli quadri le cui immagini ormai mi apparivano sfuocate perché le lacrime avevano preso il sopravvento sui miei occhi.
Quella stanza con le pareti e le poltrone rosse improvvisamente mi sembrò piccola e soffocante, e la voce di quella donna che mi implorava di sedermi mi risuonò assillante, così la voglia di andarmene e scappare via da tutto quello mi assalì improvvisamente.

Sentivo tutte le emozioni amplificarsi e sfociare nel dolore. Ad un tratto erano diventate ancora più pesanti e quella stanza era troppo stretta per poterle contenere.

Mi voltai verso la porta sulla mia destra e la aprii lentamente, ancora indecisa su quello che stavo facendo.

Io volevo parlare, volevo tornare a sorridere, ma arrendermi era più forte di me.
Qualunque mio tentativo mentale, risultava vano ed inutile e spesso mi domandavo: "sono io che non impiego la forza necessaria?
Sono io che non mi impegno abbastanza per riuscirci?"

Io volevo ma non ci riuscivo.
Mi sentivo debole, rotta come un vetro perché troppo fragile.

E così sbattevo contro un muro.
Pareti colossali ed imponenti mi colpivano forte in faccia, così forte da rompermi dentro, da spaccarmi l'anima.
Lei, l'anima, era già ferita da quel ricordo passato, ma io infierii ancora di più su di lei.
Incisi con più rabbia su di essa, così per sbaglio o forse senza rendermene conto perché la mia anima avrebbe voluto liberarsi da quel passato, ma io non ne parlavo, non ci riuscivo, credevo di proteggerla in quel silenzio.
Solo tempo dopo mi accorsi che così facendo la stavo rovinando di più, la uccidevo di più, perché lei, l'anima, voleva urlare il suo dolore e lo urlava, ma lo faceva solo dentro di me.
Io la sentivo piangere e sbattere contro le pareti del mio corpo stanco e macchiato, ma la ignoravo, la lasciavo lamentarsi dentro ed io l'ascoltavo senza parlare.

Noi, io e l'anima, eravamo una cosa sola eppure non andavamo d'accordo, seguivamo due strade differenti.
Il mio corpo continuava a vivere, a compiere le azioni che tutti gli esseri umani fanno normalmente per andare avanti: lavorava, conduceva una vita seppur monotona, correva la mattina, a volta usciva la sera, ma l'anima soffriva intensamente per quel ricordo e mi chiedeva di graffiare la pelle, di fare cazzate ed io rispondevo subito ai suoi ordini pur di non sentirla gridare, pur di non farla pensare, pur di farla tacere e farla dormire almeno per un istante.
Volevo dimenticare almeno per un secondo e l'unico modo per scacciare via quel dolore era coprimi di altro dolore, quello fisico, perché per me era più sopportabile.

Il solo metodo per anestetizzare quell'anima in pena era tingerla di rosso.

"Paige dove vai? I tuoi genitori ci tengono molto a queste sedute lo sai!"

Non ci ripensai un secondo a quelle parole ed uscii lasciando sbattere la porta alle mie spalle.

I miei genitori ci tenevano?
E a me cosa importava?

Per me era solo un tormento dover parlare, io odiavo parlarne, odiavo sfogarmi, perché sfogarmi significava ritornare con la mente al maledetto giorno in cui persi la mia innocenza, al maledetto giorno in cui divenni donna contro la mia volontà.
Parlarne significava ricordare che qualcuno aveva varcato una soglia importante e delicata della mia vita senza bussare, senza chiedermi il permesso.
Significava sottolineare per la millesima volta che il mio bianco si era macchiato di nero divenendo perenne grigio.

Scesi di fretta la rampa delle scale e mi fiondai fuori dal cancello come per voler sfuggire a qualcosa, forse a quelle emozioni. Come per volermene liberare e lasciarle lì, ma niente, quelle emozioni mi seguivano ovunque, mi perseguitavano e mi erano entrate dentro fino a divenire una parte consistente di me.

Camminai a passo spedito, sperdendomi fra la folla di quei grossi marciapiedi mentre il vento freddo mi sferzava in viso e portava via quelle odiose lacrime senza neanche dargli il tempo di scendere.
Camminavo velocemente senza guardare in faccia nessuno, anche perché i miei occhi erano troppo colmi e offuscati per poter vedere ciò che c'era d'avanti a me, così mi scontrai con qualcosa o meglio con qualcuno.

"Ehi tu guarda a dove metti i piedi quando cammini"

Alzai lo sguardo spontaneamente, asciugai una delle mille e dispettose lacrime con il dorso della mano e il sangue mi si gelò nelle vene quando vidi bene in viso colui contro la quale avevo appena avuto uno scontro.

Save me (#Wattys2016)Donde viven las historias. Descúbrelo ahora