Capitolo 6

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"Larry vieni che mi serve una mano in cantina"

Fu la voce del signor Dickens, il mio capo che mi smosse da quello stato di trans.

Un attimo! Larry? Il mio capo lo stava chiamando? Una mano in cantina? Chi era quel ragazzo?

"Aspetta ma tu lavori qui?"

"No... il proprietario è mio zio e adesso devo andare ad aiutarlo.
Ben tu vieni con me".

Mi rispose in tono sgarbato mentre trascinava il bambino come se io fossi la peste da evitare e probabilmente me lo meritavo.
I miei modi non erano dei più garbati, ma non era colpa mia, non era merito mio se ero diventata così, non era colpa mia se guardavo la vita con gli occhi del sospetto.

"Larry" ripetei sottovoce quel nome, assaparolandolo acidamente ed improvvisamente mi ricordai di Stephy.

Sentii di nuovo uno strano peso incombermi nel petto, sentii di nuovo quello strano dovere di fare qualcosa, un qualcosa che però non riuscivo a capire.
Era come se avessi avuto il sesto senso che di lì a poco sarebbe accaduto un non so cosa, ma la sensazione che avevo era brutta, era opprimente e pesante, così pesante da sentirne il peso inesistente.

Presi il telefono e la chiamai ma il suo cellulare risultava spento o non raggiungibile e il pensiero che le fosse accaduto qualcosa mi sfiorò pericolosamente la mente.

Decisi di non penserci troppo, presi il mio grembiule piegato sul biancone e lo allacciai con un piccolo fiocco dietro la nuca, mentre osservavo di sottecchi Larry che aiutava il signor Dickens a scaricare delle casse di birra.

In effetti in quel locale le birre volavano, ne chiedevano a volontà e spesso pensavo che quel posto era la macchia di New York, il tulipano in mezzo ad un campo di rose rosse, un po come mi sentivo io: inadeguata, forse per questo accettai subito quel lavoro senza pensarci due volte.
In un certo senso quel posto lo trovavo squallido con tutto quel marrone, tutto quel legno, ma allo stesso tempo era accogliente, caldo, pulito, ti faceva sentire a casa, soprattutto quando fuori il freddo ti uccideva congelandoti le dita ormai violacee e ti faceva treamare le ossa.
In quel caso il Duffy's cooffe sarebbe andato bene anche al vip abituato al lusso più sfrenato.

"BELLEZZA PORTACI DUE BIRRE GRANDI"

Quasi sobbalzai quando quella voce cafona e rauca d'alcool mi sfondò un timpano per la troppa potenza impressa nel tono.

Mi affrettai nell'ordinazione e quando poggiai le bottiglie sul piccolo tavolo in legno, la mano grassa e pelosa di quell'uomo scivolò sulla mia gamba facendomi ritornare in mente cose orribili, facendo riemergere dentro di me quella brutta sensazione che provai in quel maledetto giorno.
Nella mia mente ricomparvero quelle immagini, riascoltai le mie urla, il mio pianto, stavo scoppiando dentro mentre la calma fuori mi assillava per il troppo contrasto, per la situazione agli antipodi che si veniva a creare.
Era giorno e notte, caldo e freddo, silenzio e rumore, guerra e pace e per me era impossibile resistere.

Sbiancai ma non urlai perché in quelle occasioni la voce mi moriva in gola, mi mancava, i nervi a fior di pelle mi stringevano le corde vocali, strozzandole e trattenendo dentro ogni possibile parola.
Non ci pensai due volte a difendermi e lo colpii con uno schiaffo.
In quel gesto impressi tutta la forza che avevo in corpo, caricai tutto quello che sentivo dentro, tutte le urla trattenute sfogarono in quel tocco violento.

Nessuno doveva toccarmi! Nessuno più! Mai più!

Vidi i suoi piccoli occhietti sgranare, si portò la mano nel punto in cui lo avevo colpito e mi guardò stupito dal fatto che io avessi osato a toccarlo.
Il suo sguardo mi fece raggelare il sangue nelle vene più del freddo di New York.
Si alzò dallo sgabello piano, lentamente, come per assaporare la vendetta che aveva in mente.
Indietreggiai verso il bancone, fino a quando non avevo più spazio e sentivo il suo fiato d'alcool sulla mio viso, ma non avevo paura perché sapevo di non essere sola.

Save me (#Wattys2016)Where stories live. Discover now