Capitolo 14

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"Perche menti a te stessa?"
Ripeté il mio IO durante il tragitto verso casa.

E quello che so fare di più. È più facile. Non credi?

"Può darsi! Ma non ha comunque senso"
Concluse quando riposi la testa sotto al cuscino per mettermi a tacere.

Dopo la notte insonnia trascorsa a guardare la luna pallida, avevo a malapena le forze per alzarmi dal letto.
Le lucette che mia madre aveva messo intorno alla vetrate della mia cameretta, mi avevano infastidito tutto il tempo, con il loro ripetitivo e continuo accendersi e spegnersi ad intermittenza.
Erano instancabili e terribilmente snervanti, così mi ero alzata e con rabbia avevo strappato il filo dalla presa elettrica.
Fortunatamente non dovevo andare a lovoro, perché il Duffy's coffee riapriva solo il giorno dopo aver festeggiato il capodanno.
Il signor Dikens era un tipo molto attaccato al rispetto delle tradizioni, e le festività andavano celebrate a casa, in famiglia, davanti ad un focolare schiocchettante e un buon bicchiere di vino rosso fra le mani.
Queste erano state le sue ultime parole, prima di chiudere la serranda il giorno precedente alla vigilia di Natale.

Io forse al vino avrei rinunciato volentieri, siccome ero completamente astemia, ma su una cosa ero d'accordo con lui: le vacanze andavano trascorse a casa.
Magari io preferivo restare da sola piuttosto che in famiglia, ma a casa mi sarei sentita sicuramente meno osservata, più nascosta dietro le mie parole non dette, meno tesa di fronte a chi scrutava il mio isolamento e non obbligata ad intrattenere conversazioni di cui io, non ne capivo il senso, l'origine.
Futili discorsi incentrati su un qualcosa che in realtà non esisteva neppure.
Questo anche era il motivo per cui io non avevo amiche intorno.
Mi annoiava il loro cicaleccio.
Avevo Stephy che mi guardava senza chiedere.
Stava in silenzio quando non c'era nulla da dire.
Lasciavamo agli altri le intuli frasi di consolazione.
C'era il suo sostegno, la sua comprensione quando parlare era assolutamente inutile, quando ogni parola sarebbe stata vuota ed insensata.
Inutile sprecare il fiato.
Né doveri, né obblighi a collegarci, solo la spontaneità di quello che ci andava di dire e di fare.
Solo un suo abbraccio, un suo sguardo di appoggio e niente più.
Il silenzio faceva da padrone.

Forse quello che non avevo capito io era questo: il silenzio l'aveva uccisa e stava rischiando di avvolgere anche me in una nuvola fitta ed impenetrabile, proprio come il mio essere.

Anche quella mattina trascorse pigra e lenta ad osservare il ticchettio dell'orologio, che percorreva preciso i secondi.
Vidi il display del mio telefono illuminarsi e mi catapultai a prenderlo, scattando dal divano al tavolino di fronte a me su cui lo avevo appoggiato.
Mi sorpresi io stessa della mia reazione avventata e frettolosa.
Sapevo chi poteva essere, eppure mi ero mossa così spontaneamente lo stesso.

"Paige io ti aspetto al Central Park.
So che verrai. Ne sono certo!"

Scriveva il messaggio di Larry ed io non potei evitare un sorriso incontrollato che mi rilassò il volto.
Non capivo l'effetto che aveva su di me e il controllo che riuscisse ad avere sulle mie azioni, senza che io potessi controllarle.
Forse ero io ad essere ancora una volta fragile di fronte a qualcuno e ciò mi spaventava.
Mi smuoveva i muri. Adesso sembravano più deboli di prima, come se stessero per cedere, ma poi quel ricordo, quella paura di sbagliare ancora ritornava e rafforzava gli argini che mi costruivo intorno.
Non ero così stupida da non capire quello che stava succedendo.
Non sapevo bene cos'era. Non sapevo ancora dare un nome a quella strana sensazione di benessere nell'averlo affianco, ma sapevo che non mi era indifferente.
Era troppo prematuro chiamare quella strana cosa, quel battito in più con un nome, ma soprattutto lo trovavo sbagliato, visto che lui era l'ex ragazzo di Stephy.

In quel mese c'era stato senza che io glielo avessi mai chiesto.
Con una banale scusa me lo ritrovavo dietro il bancone del Duffy's coffee a portare i vassoi più pesanti oppure ad interrompere un imminente lacrima, quando guardavo la mia foto con Stephy sul display del telefono.
Sapeva quando stavo per crollare.
Sapeva quando era il momento di smettere ad insistere.
Sapeva che limiti c'erano, perché io ne avevo tanti di limiti.
Non so come, ma lui sapeva che non doveva cercare di avvicinarsi troppo, non più del dovuto.
Sapeva quando non avevo voglia di parlare e allora cominciava a raccontarmi di Ben e di quanto era buffo da piccolo.
Avevo instaurato un bel rapporto con quel bambino.
Dopo scuola veniva a trovarmi spesso, siccome il locale era di suo zio e mangiava sempre una grossa fetta di torta al cioccolato.

Larry stava cercando di insegnarmi la sua teoria sulla vita.
E ci stava pian pian riuscendo.
Lentamente, piano piano, a piccoli ed indecisi passi stavo cominciando a trattenere i pianti e a prenderli a calci, quando cercavano di rubare altra acqua amara dai miei profondi pozzi colmi.
Apprezzavo immensamente quello che faceva, perché sapevo che per vedermi sorridere metteva da parte il suo di dolore, perché indubbiamente c'era.
Lo vedevo nei suoi sguardi e sapevo che portava altro sulle spalle, un peso più grande ed incombente.
Qualcosa del passato che faceva ombra sul presente.
Una sagoma che si allungava nel riflesso dei lampioni sull'asfalto scuro.
Lo sapevo perché ce l'avevo anche io e ne riconoscevo l'insopportabile scia che ti insegue.

"Perché ne sei così certo?"

Le mie dita si mossero spontaneamente sulla tastiera e la sua risposta come previsto, non tardò ad arrivare.

"Lo so e basta"

"Questa risposta non vale e inoltre non mi convince"

Gli risposi e davvero non mi convinceva.
In realtà molte cose di lui non mi convincevano.
La sua dedizione nei miei confronti e la sua costante presenza dal primo giorno in cui lo avevo scontrato.
La sua compagnia nei giorni successivi al funerale, lo scambio del numero di telefono come se si sentisse in dovere di fare qualcosa per la mia persona.
Un debito senza aver mai ricevuto un credito da me.
Non mi disturbavo più di tanto a cercare risposte, perché la sua presenza mi bastava.

"Forse perché sei Paige"

La sua risposta stavolta si fece attendere qualche minuto e me l'aspettavo, perché stavo entrando in punta di piedi là dove ancora non ero stata invitata, là dove io avevo negato a lui.
Là, dove lui come me, non era ancora pronto.
E stavo andando in fondo. Dentro. Nel passato. In un luogo dove nessuno vorrebbe tornare, ma che inevitabilmente il presente ci costringe a farlo.
Un posto lontano nel tempo e nei giorni, ma sempre troppo vicino nel farsi sentire.

"Perché vuoi passare del tempo con me?"

Quella domanda che mi torturava la mente, scivolò nel sangue fino a muoversi nelle dita e descrivere il contorno di quelle parole.

"Mi piace e voglio aiutarti"

"Perché ti piace o perché vuoi aiutarmi? Sono due cose diverse"

Un'insana curiosità verso i suoi atteggiamenti si appropriò di me all'improvviso, come non faceva da tempo.

"Perché queste domande adesso? Entrambe le cose"

"Così. Curiosità"
Ovviai per non fargli capire i miei intenti.

"Allora verrai?"

"Non lo so. Vedremo"
Scrissi rapidamente.

"Ma sai che ci andrai Paige"
Ritornò intromissivo il mio IO.

Save me (#Wattys2016)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora