Capitolo 5

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"No. Lui non lo deve sapere"

"Ma perché Stephy?"

"Perché lui non capisce che ne ho bisogno, che mi serve e me lo impedirebbe"

Quelle parole mi fecero pensare tre cose.
La prima fu il terrore che quella serata fosse stata più pericolosa delle precedenti. La seconda che io inconsciamente stavo divenendo complice di questo suo segreto, di questo suo uccidersi senza rendersi conto, e la terza che lei non fosse realmente innamorata di questo tale Larry.

Io non mi intendevo d'amore, ma una cosa l'avevo capita: se tu ami una persona non gli nascondi le cose, non hai segreti per lui, non ti va nemmeno di mentire.
Se tu sei innamorata non cerchi di rovinarti, ma fai di tutto per stare bene con quella persona, almeno questo era quello che sentivo dire da chi provava questo sentimento tanto grande quanto complicato e assurdo da comprendere.

Erano le sei di sera quando salutai Stephy e mi diressi al Duffy's coffee, il bar in cui lavoravo da alcuni mesi.

Faceva freddo quel giorno, più freddo del solito e la neve che cadde dal cielo mentre io mi incamminano verso il bar, per la prima volta non mi sembrò bianca, la vidi più scura, o forse ero semplicemente io che avevo una strana sensazione nel petto, avevo come l'impressione che stava per succedere qualcosa ed io avrei potuto impedirlo se avessi voluto, se avessi almeno provato a farlo.
Sentivo come un peso, una voce lontana ed impercettibile che mi suggeriva un consiglio che però io non riuscivo ad ascoltare o semplicemente ero così presa dalle mie pene che nemmeno mi sforzavo per tendere l'orecchio.

Poteva cadermi un masso sulla testa, ma non mi sarei mossa di un millimetro, anzi lo avrei accolto con il sorriso, con la speranza di chiudere gli occhi in questo mondo e riaprirli in un esistenza migliore, o ancor meglio speravo che dopo la morte ci fosse stato solo il silenzio, la quiete dopo la tempesta, il nulla, perché per me il nulla era più rassicurante.
Il nulla stava a significare niente più ricordi, niente più passato, niente più flashback di istanti maledetti, niente più replay dei film d'orrore.
Semplicemente il niente, ed io desideravo il niente, amavo il niente.

Ma questo era solo una stupida illusione. Quel masso dal cielo non sarebbe mai arrivato, in fondo me lo sentivo che non era tutta lì la mia vita, ma io ero tanto vigliacca e codarda per imparare a vivere nel miglior modo possibile, tanto quanto lo ero per decidere di smettere di esistere, di premere off sul tasto della mia esistenza.
Per quanto mi tentava la cosa, non avrei mai avuto il coraggio di azionare quel telecomando, di porre un freno definitivo ai miei tormenti.
No questo no! Purtroppo o per fortuna io non arrivavo a questi livelli di coraggio estremo.

Intanto vivevo e ad ogni passo che facevo faticando con le gambe nella ormai alta neve di quella strada illuminata, sentivo quel peso aumentare di più, farsi più grande e prendere più spazio fino a sentirlo nello stomaco, come per darmi l'istinto di tornare indietro.
Ma indietro per fare cosa? Per andare dove?

Questo lo capii solo poco tempo dopo, quando era ormai troppo tardi per retrocedere.

Arrivai quasi con l'affanno davanti alla porta girevole del Duffy's coffee.
Il cielo grigio e spezzato dai mille grattacieli di New York si era dato da fare, aveva sfogato tutta la neve che aveva in corpo perché ormai era novembre inoltrato e le temperature raggiungevano i 10 gradi sotto lo zero.
Afferai la maniglia gialla per spingere il vetro pesante e il calore del fuoco proveniente dal caminetto della stanza mi invase insieme all'odore del caffè, al piacevole profumo della legna bruciata che spadroneggiava nell'aria e a quello pesante della nicotina delle sigarette.
Scrollai il mio cappotto grigio sul tappeto rosso dell'entrata, per poi riporlo sull'apposito appendiabiti. Scossi i miei capelli rossi per togliere qualche piccolo fiocco incastrato che stava per sciogliersi fra i morbidi riccioli, mentre mi diedi una rapida occhiata dallo specchio che si trovava proprio davanti all'ingresso in stile arte povera come il resto del locale.
Osservai il mascara sciolto che circondava il verde dei miei occhi e imprecai un "merda" perché odiavo somigliare ad un panda.
La mia carnagione era già bianca come la luna e con l'aggiunta di quei due cerchi neri, sembravo davvero mamma panda alla ricerca dei suoi cuccioli sperduti, visto l'espressione cupa che mi accompagnava il viso.

Non sistemai quel misero trucco, non ne avevo nè la voglia, nè la pazienza e inoltre non mi importava più di tanto il mio aspetto, in fondo era il riflesso di quello che portavo dentro: bianco, nero e grigio, avevo smarrito i colori.

Stavo solo sopportando un'altra giorno, un'altra sera a sgobbare dietro il bancone fra gli aliti di birra e le manaccie lunghe delle teste calde che frequentavano quel posto, ma tanto io ci ero abituata a vivere senza un sorriso, a vivere sprecando il tempo regalandolo alla tristezza e alla malinconia degli anni migliori.

Spesso mi rimproveravo che ero io che non riuscivo a reagire, mi ero fatta sopraffare dai ricordi, da quell'atto meschino compiuto contro il mio volere.
In fondo io non ero l'unica donna sulla terra ad aver subito una violenza, purtroppo non ero la prima e non sarei stata nemmeno l'ultima.
Prima di me ce ne erano state tante altre e ce ne sarebbero state ancora, eppure la maggior parte di esse ne era uscita fuori da quell'incubo, l'avevano superato. Alcune di esse avevano ripreso a vivere, ma perché io non ci riuscivo?
Ero io che non mi impegnavo abbastanza?
Ero io che non trovavo più scopi validi per farlo?

"Hai dei bellissimi occhi"

Mi voltai ed un bambino paffuto sui dieci anni circa mi sorrideva mentre mangiava delle patatine al ketchup.

"Hey grazie... come ti chiami?"

Risposi voltandomi e stranamente provai subito simpatia per quel bambino.
Di solito non chiedevo nulla, ignoravo tutto e tutti, e non mi importava di niente, ma quella volta la curiosità e la voglia di socializzare mi pervase cogliendomi di sorpresa.

"Ben quante volte ti ho detto che non voglio che parli con gli sconosciuti, soprattutto qui, questo non è un posto per bambini"

Quella voce mi risuonò familiare, guardai alle spalle del bambino ed era lui, di nuovo quel ragazzo che avevo scontrato prima di arrivare a casa di Stephy.
Era il ragazzo che somigliava tanto a colui che più odiavo in questa terra e nel resto dell'universo.
I capelli rasati sulla nuca e i suoi occhi scuri, mi ricordavano lui irrimediabilmente e questo mi portava ad odiarlo, a disprezzarlo e a provare la nausea per lui senza un reale motivo.
Non so perché, ma la mia testa, connetteva i suoi lineamenti a quelli di quel Lui, quel maledetto Lui che era la causa del mio trauma e dei miei dolori.

"Che cosa ci fai tu qui? Mi stai seguendo?"

Le mie corde vocali si articolarono per formare quelle domande che forse non avevano un senso, ma una delle tante conseguenze del trauma era proprio il fatto che ero spaventata, e questo mio essere spaventata mi portava a mettermi sulla difensiva, a trovare il pericolo e il sospetto anche dove non c'era.
Mi portava a difendermi dai mali inesistenti, mali invisibili ma che il mio occhio troppo sensibile vedeva anche in mezzo al nulla.

"Cosa? Tu sei pazza! Mi vieni addosso e non ti scusi, anzi mi urli contro e mi lanci un occhiata come se io fossi un maniaco e inoltre mi accusi di seguirti!?
Tu non ci sei con la testa... ma ti ascolti quando parli!?"

Non sapevo che rispondergli, una parte di me gli dava ragione e mi suggeriva di scusarmi.

"Paige non puoi avercela con lui. Lui non centra, non lo conosci nemmeno!"

Ma l'altra parte di me, quella più fragile e rotta, come un diavoletto mi urlava dentro di odiarlo, di mandarlo via, di disprezzarlo.

Ero combattuta fra due trincee, in me regnava la guerra, il caos, ma il silenzio più assordante mi spezzò la voce dentro e lasciò che il ricordo prendesse il sopravvento un'altra volta. Lasciò che l'anima mi lanciasse contro urla stridule e disperate e quegli strilli mi aggrovigliarono i nodi nella gola, quasi come se mi sentissi soffocare da una corda invisibile che si chiamava voglia di piangere, soffrire costantemente.

Lui mi guardava fisso in attesa di una risposta, di una mia reazione ed i miei occhi si spostavano in continuazione da lui al bambino paffuto, facevano su e giù velocemente. Erano disorientati e confusi quanto me.

In quegli attimi non capivo più nulla, i miei pensieri si stoppavano come una brusca frenata d'auto e avevo l'impressione di colpire la testa su un voltante, ma non era un volante era solo il ricordo che mi sbatteva forte in faccia.

"Larry vieni che mi serve una mano in cantina"

Fu la voce del signor Dickens, il mio capo che mi smosse da quello stato di trans.

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