3. Piacevoli soprese

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S'era già fatta sera, quando Aritomo mi comunicò che mio padre voleva vedermi. Lo conoscevo sin da bambina quell'uomo, ma nulla era cambiato dal giorno in cui entrò per la prima volta nel nostro castello: né il suo modo di fare impacciato, quasi inadatto per il posto d'onore che mio padre gli aveva voluto riservare, né la bontà che ancora risiedeva nel suo cuore. Perché pochi come lui erano rimasti puri d'animo, nella mia grande famiglia; soltanto a pochi, la ricchezza e il benessere non avevano dato alla testa.
Quella volta, egli mi esortò a sistemarmi adeguatamente, con un sorriso benevolo: era felice per me, anche se non sapeva a cosa sarei andata incontro.
E, anche se saremmo stati solo io e mio padre, mi preparai come se dovessi presentarmi ad un'attenta giuria. In fondo, lo sapevo che sarei stata giudicata, senza preavviso. Gli occhi di quella gente erano sempre e solo puntati su di me, e io facevo di tutto per omologarmi al loro stereotipo di principessa, e donna perfetta. Ma senza successo. Avevo bisogno degli occhiali, perché altrimenti non avrei visto bene. E stare tutto il giorno con Atsumichi tra gli arbusti richiedeva che raccogliessi i miei capelli in una coda. Perciò, non mi preoccupavo molto che fossero puliti. Dato che sapevo che anche quel giorno l'avrei passato con il vecchio giardiniere, decisi che non c'era bisogno di profumare. Ma se avessi saputo che mio padre avrebbe voluto vedermi e parlarmi, di certo avrei prestato più attenzione alla mia pelle e a tutto il resto. Purtroppo, non mi era stato detto nulla. E l'unica cosa che potevo fare, tardi com'era, era puntare sull'abito. E scelsi il mio preferito, dopo aver provato tutti quelli che conservavo nel mio armadio e dopo averli rifiutati, per l'ennesima volta. Era inutile: più passava il tempo, e più rimanevo sempre la stessa, senza cambiare. Quel verbo non faceva proprio parte del mio vocabolario. E nemmeno riordinare rientrava nella lista delle cose da fare, perché, anche se promettevo di sistemarla ogni volta, la mia scrivania rimaneva sempre la stessa. Quello era il posto, infatti, dove mi divertivo a mettere per iscritto i miei pensieri, dato che mi era impedito leggere quelli degli altri. E avevo proibito a tutte le donne del palazzo di frugare nel mio posto preferito, per riordinarlo: senza il suo disordine creativo e voluto, la mia scrivania non sarebbe stata più la stessa, ne sono sicura.
E, anche quella volta, prima di uscire, diedi una rapida occhiata alla carta giacente su quel pezzo di legno, contenta che tutto fosse al proprio posto. Poi, mi diressi nel posto in cui avrei, di sicuro, trovato mio padre.
Quando scorsi la sua figura, sdraiata comodamente sul trono, non riuscii a credere ai miei occhi: mi aspettavo tanta gente e, invece, nella più grande sala del palazzo, quella dove si tenevano i balli tra dame e cavalieri durante le serate più importanti per la popolazione, c'eravamo solo io e lui; e a separarci un lungo e vuoto corridoio. Sulle pareti, i ritratti della nostra famiglia. Tra tutti, anche il mio, e quello della mamma, che era ancora, sorprendentemente, al suo posto: sacro e intoccabile, lo reputavo per la sua finezza. Infatti, metteva in mostra tutta la sinuosità nella forma di mia madre; tutta la sua delicatezza e ogni lato della sua radiosa personalità.
Superati quelli, altri dipinti sui nostri antenati.
Li analizzavo velocemente con gli occhi, fino a quando non finirono. A quel punto, io ero già giunta da mio padre, dall'altra parte del corridoio da cui ero arrivata.
Sfoggiai un inchino non troppo teatrale e scenico, e un debole sorriso: riuscii a contenermi, e a trattenere tutta la mia gioia.
"Figlia mia. Come stai?"-ancora impegnata nel mio gesto, la voce di mio padre mi costrinse ad alzare di poco il viso, prima deciso verso il pavimento, e ad aprire gli occhi chiusi per eleganza.
"Ti prego. Lascia perdere queste finezze. Sappiamo entrambi che non ti si addicono."-ammise mio padre, e io, per la prima volta, fui felice di obbedirgli, e di dargli ragione.
Puntati i miei occhi sul suo viso, notai che i suoi già fissavano il mio corpo, andando su e giù dolcemente, quasi stupiti di ciò che avevano dinanzi. Notai con piacere una luce nelle due gemme castane che gli dominavo il volto, ereditate persino da me.
"Sei bellissima."-confessò mio padre. Poi, prese a guardarmi in viso.
"Grazie, padre."-risposi al suo complimento, il primo dopo tanto tempo. Tremendamente rossa in viso, cercai di contenermi e di non sfociare in una risata. Quando sono nervosa, infatti, rido a crepapelle, e non riesco a smettere. Ma se l'avessi fatto in quella situazione, non sarei stata apprezzata da mio padre, e tutti i miei sacrifici per apparire graziosa ai suoi occhi si sarebbero dimostrati vani.
"Una bella signorina come te ha proprio bisogno di un baldo cavaliere che la protegga. Non credi anche tu, bambina?"-al sol pensiero di quello che aveva detto mio padre, il mio corpo venne percorso da un effimero brivido di piacere. E le guance già rosee si tinsero di un colore ancora più vivo e emozionato; imbarazzato, ma felice.
"Accomodati al mio fianco, cara. Abbiamo tante cose di cui discutere."-mi disse, infine, il re, sorridendomi e indicandomi un posto accanto al suo; quello sulle sue gambe: mi sentivo amata come una bambina; mi sentivo una bambina stessa. E quando mio padre arrivò, finalmente, a fare il nome di Erwin Smith, il mio cuore prese a battere in modo scellerato: ero davvero fuori controllo. Lo amavo. Amavo quell'uomo di nobile famiglia, ed ero felice che mio padre accettasse il fatto che anche lui mi apprezzava. Andavano d'accordo. C'eravamo già incontrati delle volte, e avevamo parlato della passione per la lettura e la scrittura, per la vita, che lega le nostre anime, innamorandoci l'una dell'altro. Quasi perdevo il respiro, in sua compagnia. I suoi capelli color oro, la muscolatura decisa e possente, l'altezza massiccia e i tratti del viso ben marcati e pesanti; la decisione e la determinazione che metteva in ogni cosa erano il mio unico punto debole. E amavo ogni aspetto della serietà e dell'impegno che riservava per ogni compito che gli veniva affidato. Dunque, sapere che aveva chiesto la mia mano e che mio padre approvava tale scelta fu la notizia più bella che avrei potuto ricevere, quel giorno. Lo credevo davvero. Ci credevo davvero in quel momento tra padre e figlia, ma mi sbagliavo.
Presto, infatti, mi resi conto che ciò che credevo fosse amore e avesse sempre unito me e Erwin era, in realtà, soltanto semplice cortesia. Un sentimento imposto da altri, il frutto di un attento lavorio psicologico; un piano già congegnato. Ma compresi appieno quello che stava accadendo, solo pochi giorni dopo: soltanto quando divenne evidente, capii il motivo di tanta dolcezza e disponibilità.
Capii che la mia famiglia mi stava tradendo.

L'amore non ha buone maniere Tempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang