13.

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«She's got eyes of the bluest skies

As if they thought of rain

I hate to look into those eyes

and see an ounce of pain»

Forse sono svenuta o caduta in un sonno profondo... che differenza potrebbe mai esserci?

Sbatto velocemente le palpebre e riconosco immediatamente il luogo che mi circonda: la stanza del dormitorio.

Mi volto verso destra, eppure non incontro lo sguardo rassicurante di Hayley, la mia ancora di salvezza. Se riuscissi ancora a collegare i neuroni del mio cervello, sarei certa di come il particolare della camera vuota si ripeta instancabilmente in una coincidenza inquietante.

Vicino a me, è seduto un ragazzo dal viso familiare, forse tra i presenti al momento dello scontro o in uno dei corsi che frequento. Analizzo il suo aspetto per una frazione di tempo illimitato: i capelli mori tirati indietro con il gel per domare i ciuffi sparsi secondo un ordine casuale, gli occhi sono verde smeraldo, una caratteristica che non passa inosservata, allo stesso modo delle labbra ben delineate; indossa dei semplici pantaloncini neri e una maglietta a maniche corte bianca che lascia trasparire un fisico asciutto, non scolpito alla pari di un atleta, ma in forma come di qualcuno che tiene alla sua figura. Assomiglia molto a Jason, ora che ci penso, nonostante la differenza evidente di capigliatura.

-So di essere attraente, ma non c'è alcun bisogno che mi fissi in quel modo-

-Ma smettila...- sussurro, sollevandomi dal letto. Uno strano senso di nausea mi invade, a causa dello scatto che compio per non mostrarmi come una debole.

-Scusami, non mi sono ancora presentato: io sono Blake-

Le domande che ho in serbo per lui sono innumerevoli, eppure mi trattengo, bloccata dal terrore umano di ciò che potrebbe rispondermi. Oggi riconosco di aver esagerato, questa volta ne sono consapevole fino in fondo, ed ho paura, un'angoscia estrema proveniente dal fatto che potrei far passare brutti momenti alla mia migliore amica, e chi come lei mi sostiene ancora. Sono un disastro, non esistono altre parole per definire il mio comportamento: Adrian mi aveva chiamato per mettere fine alla loro lite ed io l'ho usato come un pretesto per una vendetta personale, sono un'egoista, mi sento uno schifo, perché senz'altro mi riconosco bene in questa figura. Non sono in grado di moderare la rabbia, nonostante reputassi superato quel tempo della mia esistenza, è tuttora con me con l'unica differenza di una scusa in meno: questa volta ero lucida, per quanto potesse essere possibile in una circostanza simile.

Non vedo alcuna soluzione o espediente che potrei utilizzare al fine di rimediare al danno, per questo l'inquietudine che provo opprime maggiormente il piccolo lato razionale che possiedo. Ormai il danno più grosso è fatto e non abbiamo alcuna macchina del tempo per tornare indietro alla definitiva collisione. Nei decisivi minuti dell'impatto non ho badato alle conseguenze, alle ore successive, non ho riflettuto sulle questioni sollevate da un'ingenuità simile, perché si questo si tratta, una idiozia compiuta per poco intelletto, e, nel dettaglio, alle tante accuse che può alzare Susan contro di me; l'unica cosa che mi frullava nella testa era incuterle timore e farle notare a chi stesse rivolgendo quelle parole piene di odio.

L' "omaggio" da me lasciato non è certo paragonabile ad una ferita a grave rischio, ma uno squarcio da ospedale vicino alle labbra era d'obbligo, in quel frangente già scosceso: in tal modo, forse, rammenterà a sé stessa di tenere la bocca chiusa, se non per un rilevante bisogno. Mi rendo conto da sola dell'impulsività del mio gesto: esistono altri modi per frenare la lingua di qualcuno, tuttavia l'azione è compiuta ed il massimo che possa fare è scovare un approccio positivo e ottimista. Le mie gambe girovagano per la stanza, in attesa del ritorno di Hayley.

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