Kilbaha

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Partimmo per Kilbaha alle dieci e un quarto.

Il ritardo, ovviamente, era imputabile a Labhraidh, il quale aveva perso il cellulare e aveva dovuto mettere a soqquadro la camera e il bagno prima di trovarlo, infognato in un polveroso anfratto dietro il wc.

Io e Declan, aspettando la partenza dai sedili posteriori dell'auto, iniziammo a fare qualche ricerca a proposito del marchio, chiedendo anche l'opinione di mia nonna e di Solamh, i quali, purtroppo, ebbero la stessa reazione stupita di Rìan.

Quando fummo finalmente in grado di partire, gli occhi mi bruciavano a causa dell'elevata luminosità dello schermo del cellulare, e la testa mi doleva per il troppo rimuginare.

Reclinai la testa contro il finestrino, beandomi del freddo contatto con il vetro, ed esalai un profondo sospiro, osservando come, con il passare dei chilometri, l'ambiente cittadino lasciava il passo ad uno più brullo e selvaggio.

Imboccammo la M7 e, quando giungemmo in prossimità di Limerick, posto a circa un'ora e mezza di strada dalla nostra meta, cominciammo ad intravvedere grossi nuvoloni violacei accumularsi all'orizzonte.

Man mano che ci avvicinavamo alla costa occidentale dell'isola, la luce si faceva via via più flebile e il cielo assumeva una colorazione giallastra, quasi malsana, segno inequivocabile che un forte temporale era in arrivo.

Diversamente da quanto mi sarei aspettata, però, riuscimmo a raggiungere Kilbaha prima che il diluvio si scatenasse su di noi.

Kilbaha era un piccolo villaggio di pescatori posto nella penisola di Loop Head, nella contea di Clare. Stretto a est dalla foce del fiume Shannon e a ovest dall'oceano Atlantico, era uno dei posti meno conosciuti – ma più suggestivi – di tutta l'Irlanda. Negli ultimi anni, il faro di Loop Head, arroccato sulla sommità di una scogliera alta ottanta metri, aveva attirato l'attenzione di un discreto numero di turisti, così come aveva fatto il Bridge of Ross, un ponte di origine naturale che unisce due lembi della scogliera. Nonostante gli incantevoli scorci che Loop Head offriva, però, il boom turistico non era mai arrivato, forse per via della tortuosa e lunga strada da percorrere per giungervi, o forse per via della gente del posto, burbera e poco disponibile con i turisti. Come conseguenza, la penisola era rimasta selvaggia, rigogliosa e fiera.

Il cartello che preannunciava il villaggio pendeva verso destra, probabilmente a causa dei forti venti oceanici che con gli anni l'avevano inclinato di qualche grado rispetto alla perpendicolare. La salsedine, inoltre, aveva eroso la vernice bianca, lasciando intravvedere il sottostante metallo arrugginito, di un corposo color ferro.

Senza sapere con precisione dove andare, procedemmo a passo d'uomo guardandoci attorno incuriositi.

Il villaggio pareva statico, avvolto in un'immobile cappa di afa e oppresso dalle nubi livide di pioggia che rotolavano placide nel cielo, accumulandosi sempre più fitte sulla costa.

L'unico luogo in cui vi era movimento era il porto: una decina di persone si aggirava sulla spiaggia, brulicando attorno alle barche dei pescatori. Vi era chi fissava gli ormeggi, chi portava reti sottocoperta e chi, addirittura, tirava in secca l'imbarcazione sulla piccola spiaggetta della baia.

L'aria era immobile, e nemmeno un soffio di vento agitava la calma piatta dell'oceano. Gli unici suoni che udivo dal finestrino abbassato dell'automobile erano lo stridore dei gabbiani appollaiati sugli alberi delle barche e le rauche grida dei pescatori.

Solamh accostò l'auto vicino ad un muretto in pietra che separava la carreggiata dalla spiaggia e, sporgendo la testa dal finestrino, chiamò: «Ehi, signore! Mi scusi, vorrei un'informazione!».

Il pescatore al quale si era rivolto, un vecchio sulla settantina dalla pelle bruciata dal sole e solcata da profonde rughe, sollevò lo sguardo su di lui e lo squadrò con i suoi luminosi occhi acquamarina.

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