1.10 Sadness is but a wall between two gardens

178 11 173
                                    

Nemmeno quando Phoenix lo aveva riportato in vita si era sentito tanto pesto. O forse quella volta sì, a voler essere sinceri, ma era accaduto anni prima e Raven aveva fatto di tutto per cancellare quella sensazione dalla propria memoria. In più, in quel caso si era trattato di una situazione eccezionale, fuori dal comune. Quella mattina, invece, avrebbe dovuto essere uguale a mille altre, e non lo era.

Raven si versò da sé il caffè nero nella tazza e in quell'occasione ringraziò il cielo di poterlo fare. Non aveva voglia di incrociare altra gente, dopo la nottataccia che aveva trascorso. Aveva ancora in testa quel maledetto sogno, di lui e di Swan. Non faceva altro che ripassarlo, riviverlo in ogni minimo dettaglio. L'eccitazione che aveva provato in principio si era trasformata in scrupolo, inquietudine, angoscia, fino a scomparire del tutto, cancellata dall'amarezza.

Si sforzò di guidare la mente altrove, cercò nel primo sorso di caffè la spinta per concentrarsi su quello che doveva ancora fare e si negò anche la minima dolcezza che gli conferiva il suo abituale goccio di latte, un po' per darsi una scossa, un po' per auto-punirsi.

Mentre ancora vagava in quel limbo di sensazioni imperfette, un getto ghiacciato lo colpì, annacquando definitivamente i suoi pensieri e ciò che stava bevendo, e riportandolo con i piedi per terra.

"Ma che diavolo...?", imprecò, cercando di scrollarsi l'acqua dal viso con un gesto nervoso.

"Che diavolo lo dico io, Raven!".

Con la mano destra sollevata, la sinistra a ghermirsi la vita e uno sguardo contrariato, Swan lo fissava dall'ingresso della cucina, come una divinità adirata.

"Che ti è saltato in mente?", continuò avanzando verso di lui, che era rimasto immobile e incapace di proferire parola. "Lasciarmi lì fuori tutta la notte! Potevo morire di freddo. Sei davvero un idiota!".

Appena realizzò il motivo di quel rimprovero, Raven non seppe stabilire se era sollievo o colpa, quello che provava. Alla fine giunse alla conclusione che si sentiva solo molto triste. E non se lo sarebbe mai aspettato.

Si girò a versare il caffè annacquato nel lavello e si impegnò in quel compito come se fosse stato vitale.

"Eri esausta e coperta a sufficienza", replicò secco, senza guardarla. "Non ti ho voluta svegliare".

Lei, di fronte a quel tono asciutto e privo di passione, mise da parte il suo biasimo e lo scrutò con sospetto. Non era da Raven, quella risposta. Lui non rinunciava mai alle sue battutine ironiche. E dov'era finito il sorrisetto sardonico che indossava appena metteva piede fuori dal letto, ancor prima dei vestiti? D'accordo, gli aveva annegato il suo primo caffè, senza il quale lui non rivolgeva parola ad anima viva se non ringhiando, ma non aveva fatto nemmeno quello. Non era lui. Non era Raven.

Cancellò l'espressione di disapprovazione, recuperò un atteggiamento più indulgente e gli si fece da presso. Lui ebbe uno scarto impercettibile e si scostò quel tanto che bastava perché i loro corpi non si sfiorassero.

"Lasciami in pace, Swan", le intimò. "Non è giornata".

Lei finse di non vedere che non stava facendo assolutamente nulla con quella tazza in mano, fuorché usarla come scusa per non guardarla, ma non riuscì a celare la sua preoccupazione.

"Che succede?", mormorò rammaricata. "Perché adesso mi eviti così?".

Raven strinse i denti e continuò a dedicarsi alla tazza.

"È per quello che mi hai confidato ieri notte?", proseguì lei imperterrita. "Lo sai che non ne farei mai parola con nessuno".

Lui asciugò nervosamente la tazza, sfregandola talmente tanto che avrebbe potuto cancellarne il colore, poi vi versò dentro un altro po' di caffè.

Laminae [SEQUEL di OPERA]Where stories live. Discover now