1.5 Don't play with fire

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Phoenix sembrava un treno in corsa, quella mattina. Raven aveva detto addio ormai da anni alle militaresche abitudini di quando era ragazzo. In fondo, non c'erano minacce che potevano sconvolgere il pianeta da un momento all'altro. Non avvertiva, come un tempo, la necessità di essere perennemente vigile e attento fin dal primo battito di ciglia della giornata. In più, la permanenza a casa di Phoenix, così lontana da Fulham e dalla città, lo faceva sempre sentire in vacanza e lo rendeva più pigro, se mai era possibile. Gli tenne dietro con fatica, sbuffando e chiedendosi perché avesse già tanta voglia di fare a quell'ora.

Quando raggiunsero il capanno degli attrezzi, Phoenix lasciò cadere brutalmente lo scatolone sull'erba e si girò a squadrare Raven che era ancora a qualche passo da lui, portandosi i pugni sui fianchi.

"Quello cos'era?".

"Cosa?", ribatté Raven, sollevando il sopracciglio di fronte all'immotivata bellicosità dell'altro.

"Tu e Swan. In cucina", smozzicò l'altro sbrigativo e fosco. "Che cos'era?".

L'inglese sollevò gli occhi al cielo, allargò le braccia e si lasciò sfuggire un'esclamazione di insofferenza.

"Dio, Phoenix! Per una volta in tutta la mia vita ti ho concesso il privilegio di una confidenza. Non penserai di mettermi in croce per i prossimi tre giorni?".

L'altro sembrò placarsi, anche se non del tutto. I muscoli contratti delle braccia gli si rilassarono, ma gli occhi verdi erano ancora freddi e indagatori. Si avvicinò all'amico di qualche passo e lo fronteggiò.

"No", scandì deciso, "non ti metterò in croce, ma te lo chiederò una volta soltanto, Pigeon: che cos'era?".

Raven prese fiato e tempo per rispondere. Il suo viso si compose nella stessa espressione seria che aveva il suo interlocutore.

"Qualcosa di molto, molto stupido", ammise infine con fatica, la voce velata da un sottile senso di colpa.

Phoenix se ne infischiò beatamente di quell'atteggiamento così poco consono a Raven e di ogni sua possibile manifestazione di contrizione. Serrò la mascella con fare intimidatorio e gli puntò l'indice contro il petto.

"Tieni l'uccello dentro i pantaloni, Raven, o stavolta giuro che te lo faccio ingoiare!".

Raven considerò che, se non si fossero conosciuti tanto bene, quella discussione sarebbe certamente finita in una rissa, visto il carattere focoso dell'irlandese e la propria esigenza di avere sempre l'ultima parola a ogni costo.

Phoenix sembrava davvero fuori di sé, come se il solo pensiero che potesse accadere un danno di tale portata, per giunta in casa sua, lo stesse mandando fuori di testa.

Ma non accadrà, non accadrà mai, quindi...

Litigare per un evento impossibile era oltremodo stupido e inutile a suo parere, così Raven mandò giù quella minaccia e allontanò la mano con calma.

"Pensavo di avertelo già detto, irlandese: io voglio solo vederla felice. Sono il primo tra noi che vuole che lei sia felice. È chiaro? È sufficiente?".

Phoenix sbuffò, si passò le mani sul viso e le lasciò scorrere tra i capelli. Si tirò indietro di un passo, girò in tondo per un paio di minuti come per far sbollire quell'accesso di rabbia, mentre Raven lo seguiva paziente con uno sguardo indecifrabile.

Quando si fermò e tornò nuovamente a fissarlo, la sua espressione non era più aggressiva. Piuttosto era incredula, come se l'uomo che aveva di fronte fosse stato uno strano oggetto incomprensibile e la sua stessa esistenza assurda da concepire all'interno della realtà.

Laminae [SEQUEL di OPERA]Where stories live. Discover now