7- Beth

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Quando arrivo davanti al piccolo edificio, quasi non mi viene un colpo. È davvero... brutto? Squallido? Vecchio? Come dovrei definirlo?
Stringo la maniglia del valigione accanto a me, facendomi coraggio. Non sarà poi così male l'interno, no?
Un passo, secondo passo, un altro ancora. Al quarto passo mi si avvicina una signora sui sessanta, alta quanto me... il che significa che è bassa.

I capelli grigi e bianchi si muovono all'unisono col vento leggero della cittadina, e scintillano alla luce del sole. Sembrano argento puro.
Le crepe sul suo viso si scostano quando si leva un sorriso dolce.

- devi essere Elizabeth! Sono Cristina! Come stai? È stato lungo il viaggio?- mi tartassa di domande con un tono gentile, tuttavia invadente.
- si, lungo- mi affretto a dire. Sono sempre stata una di poche parole, sin da piccola. Che sia dovuto ai numerosi traumi che mi ha inflitto la mia famiglia? Può essere.

Ho imparato ad essere così.

Cristina sembra non essersi accorta della risposta affrettata, perché inizia di nuovo a parlare.
- vieni dentro, cara, ti presento mio figlio- dice avviandosi verso l'entrata della "tavola calda", che presumo sia sua.
- la valigia... dove...- non mi fa finire di parlare, perché già sparisce oltre il portone.

Sbuffo togliendomi da davanti un ciuffo che era caduto sul viso, poi prendo il valigione nero e lo trascino, fino a spingere la porta ed entrare.
Un odore nauseabondo di würstel, bacon e uova mi solletica le narici, creandomi un certo fastidio, se non un conato di vomito. Non ho mangiato nulla, e ho lo stomaco ancora più chiuso dopo questo.

Cristina è ferma a parlare con un ragazzo, forse suo figlio. È carino... credo. Naso aquilino, ciuffo nero, fisico asciutto. Si voltano entrambi verso di me, rivolgendomi un caloroso sorriso, che ricambio velocemente.

Mi guardo intorno, mentre continuano a parlare.
Le pareti della tavola calda sono color mogano, i tavolini di legno, rigorosamente sporchi e senza alcuna tovaglia, sono piuttosto piccoli anche solo per due piatti. Il pavimento è di parquet, macchiato ovviamente. Il bancone è semplicemente una tavola di legno, con dietro i macchinari quasi arrugginiti di un normale bar.
Alla vetrina noto molti panini, e dei... piatti con uova e bacon già preparati, senza alcuna pellicola a coprire.
Reprimo una smorfia di disgusto. Ecco da dove veniva quell'odore.

- ciao, sono Samuel, ti mostro la tua stanza- il ragazzo, molto più alto di me, mi distrae e mi prende il valigione senza dire più nulla.
Si dirige verso una porta, che quando viene aperta mostra un piccolo corridoio con in fondo delle scale.
L'odore di umido, forse muffa, si fa subito spazio.

- sali prima tu, ti seguo con la valigia. La tua stanza è l'ultima in fondo.

Ci ritroviamo davanti a quella che deve essere la mia nuova stanza, e Samuel non ha nemmeno il fiatone per aver fatto le scale con la mia valigia. Dal canto mio, invece, mi sento esausta.
Mi lancia un'occhiata silenziosa nel prendere il mazzo di chiavi nella tasca dei jeans. Abbasso lo sguardo, fissando le sue converse nere consumate.

- ti piace?
- cosa?- chiedo confusa.
- la tavola calda- risponde cercando rumorosamente la chiave della benedetta porta.
- ah, si...
- non sei brava a mentire- ribatte lui sorridendomi e infilando la chiave.

Maledizione.

Quando varco la soglia della camera, un odore di chiuso mi invade. Il letto a una piazza è appena fatto, con un lenzuolo rosso e un cuscino dello stesso colore. Un comodino, un piccolo armadio e una scrivania di legno sono le uniche cose che ornano la stanza.
Mi dirigo silenziosamente ad aprire la finestra, per togliere l'aria viziata.

- posso chiamarti Beth?- beh, odio i nomignoli, vedi un po' te.
- certo- rispondo alla fine, guardando la strada al fianco dell'edificio dalla finestra. In fondo sono stati gentili... un nomignolo dovrei concederlo, no?
- Beth, sistemati come vuoi. Immagino tu sia stanca. Come sei messa con i soldi?

Senza dire nulla prendo dalla borsa i duecentocinquanta dollari concordati prima del viaggio, porgendoglieli.

- oh, grazie... beh, se... se vuoi aiuto basta scendere...- lo osservo avvicinarsi alla porta, ma prima di aprirla si ferma per un secondo, per poi voltarsi con un sorriso.

- senti, ne ho parlato con mia madre... e mi... ci piacerebbe che tu lavorassi con me alla tavola calda... se vuoi.
- Quando?
- da lunedì, così hai il tempo di sistemarti- mi risponde speranzoso. Alla fine annuisco, quella tavola calda non mi va a genio, ma ormai ogni cosa va bene per cominciare. Per ricominciare.

- allora ci vediamo, Beth- e chiude la porta dietro di sé, non prima di aver lasciato la chiave sul comodino.

Le gambe cedono finalmente e mi abbandono sul materasso morbido dietro di me. Il mio corpo si libera improvvisamente della tensione, permettendo alla mente di viaggiare nei ricordi.
Il mio sguardo è fisso sul soffitto color bianco sporco, mentre prendo profondi respiri e lentamente mi rilasso.

𝓣𝓾𝓽𝓽𝓸 𝓓𝓲 𝓣𝓮Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora