Capitolo 23

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Questo non era un antro della magia.

Era un ambiente divino.

Letteralmente.

Dietro a un piccolo altare di pietra era collocata una gigantografia dell'arcangelo Raffaele, che conoscevo bene vista la... ehm... professione di agevolatrice spirituale esercitata da mia madre. Era di un verde così intenso da risultare quasi psichedelico, ma per fortuna le bizzarrie estreme si fermavano qui, perché il resto dell'ambiente era di un'eleganza squisita, con candele color crema in ogni dove, cristalli di purificazione delle energie disposti in maniera discreta e quasi decorativa lungo le pareti, e diffusori di oli essenziali che spandevano tutt'intorno un delizioso aroma di lavanda.

A dir la verità, il dettaglio più interessante dell'intero salone era la donna che mi aspettava seduta su un divanetto color panna dall'aspetto incredibilmente comodo. Non indossava palandrane dorate, mantelli scuri con cappuccio o bizzarri gioielli a forma di pentacolo; pareva, anzi, più un angelo che una strega, visto che aveva dei capelli di uno straordinario biondo cenere, raccolti in una treccia soffice che le poggiava su una spalla, e occhi di un incantevole color acquamarina. Il maglioncino di cashmere color tortora, i pantaloni a sigaretta in tinta unita e i semplici mocassini la facevano sembrare una rassicurante maestra di una scuola elementare, e di certo non una donna capace di eseguire un sortilegio.

Già il suo aspetto mi aveva intrigato, ma a conquistarmi del tutto fu la sua aura: di un caldo color miele che, a differenza di quelle mutevoli di Kurt e di Max, pareva tranquilla ed equilibrata.

«Vieni, cara, siediti qui» disse la donna, con una voce accogliente quanto la sua aura, indicandomi un divanetto accanto al suo. «Ti stavo aspettando.»

Stupefatta da tanta gentilezza, lanciai un'occhiata a Max; il ribaldo si limitò a sorridere con aria misteriosa, per cui non mi restò altro da fare che obbedire e avvicinarmi alla donna chiedendomi a ogni passo dove fossi capitata. Quello non poteva essere un luogo in cui si praticava la magia. Era troppo... pacato. Niente suoni strani, canti satanici mormorati in sottofondo, colori talmente sanguigni da provocare convulsioni al solo vederli.

«Noi pratichiamo la magia bianca» spiegò la donna.

Mi fermai a metà di un passo, interdetta.

Che avesse captato i miei pensieri?

Ma era impossibile!

La telepatia non...

«La telepatia esiste» spiegò la mia ospite. «E sì, posso leggere i tuoi pensieri» aggiunse, lasciandomi senza parole.

«Ma... Come...?» balbettai.

La donna inclinò la testa di lato e mi rivolse un sorriso adorabile, di quelli capaci di rischiarare una giornata di nuvole. «Mi chiamo Astarte» disse, prendendomi le mani con un gesto affettuoso.

Il nome era più che bizzarro, per il mio orecchio poco allenato ad appellativi inconsueti e spirituali, vista la mia resistenza di una vita ad ascoltare gli sproloqui di mia madre e delle sue migliori amiche, Isis, Brianna e Stardreamer, ma a colpirmi più di tutto fu il senso di calore che mi trasmise il tocco della donna, penetrandomi attraverso le dita e avvolgendomi in un morbido abbraccio. Persi qualche istante a fissare incantata la sua aura, che la circondava in un alone di luce purissima; Astarte se ne accorse, perché si concesse una piccola risata, che risuonò nell'aria come un trillo cristallino.

«Posso leggere il pensiero, sì, un po' come tu leggi le aure» spiegò, rispondendo alla mia domanda di poco prima. «Ma nel mio caso si tratta più di una vaga sensazione. Non identifico la parole alla perfezione; a volte, mi arrivano sotto forma di immagini.»

Il ragazzo con l'aura d'argentoWhere stories live. Discover now