CALI

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Dopo essermi fatta una doccia bollente, aver guardato tutti i canali tv disponibili fino alle sei del mattino, capisco che Isac non tornerà.

Sei proprio una stupida. Stupida, stupida ragazzina.

Mi sento terribilmente umiliata da quello che è successo e dato che se ne è andato, suppongo che la mia audacia l’abbia al massimo divertito.

Senza pensare compongo il numero di Whitney, che risponde al quinto squillo.

<<Cali, oddio stai bene?>>

<<Sto bene, niente di grave. Avevo bisogno della mia migliore amica.>>

Whitney fa una pausa, mi sembra di riuscire a vederla mettersi a sedere sul letto e stropicciarsi gli occhi.

<<Spara.>>

Le racconto tutto, ogni cosa.

Di Isac che è un estraneo, un uomo che, non ci vuole molto a capirlo, fa parte di qualcosa di illegale e pericoloso.
Le confesso che con lui mi sento al sicuro, nonostante l’aria da duro sento di potermi fidare.
Le racconto dei nostri incontri brevi, delle poche battute scambiate e con non poco imbarazzo le racconto della crisi e della notte appena trascorsa.

Non le nascondo di sentirmi un’idiota, una povera illusa.

Nelle mie condizioni come potevo anche solo pensare di suscitare qualcosa ad uno come lui?

Eppure non riesco a togliermi dalla testa la sua pelle e le sue mani, ed il solo fatto che sia rimasto a casa mia mentre crollavo mi fa contorcere lo stomaco.

<<Cali, quel tipo è un figo, davvero, un gran figo, ma ha scritto pericolo a caratteri cubitali e fosforescenti sulla fronte. Capisco che lui ti piaccia, che ci sia una chimica eccitante, ma Cali sai come stanno le cose. Non puoi permetterti di stare male ancora o sprecare tempo molto prezioso dietro a questo Isac, insomma nemmeno lo conosci.>>

Whitney ha ragione, da vendere, su tutto.

Dovrei concentrarmi sulla mia vita e su quel poco che mi resta per renderla quantomeno accettabile.

<<Grazie Whit.>>

La saluto ed improvvisamente ho voglia di correre.

Sono quasi le sette, non ho chiuso occhio tutta la notte, ma oggi non ho lezione quindi decido di seguire il mio istinto e regalarmi un’ora di libertà.

Infilo i leggins sportivi ed un top rosa e con la musica sparata nelle orecchie lascio l’appartamento.

L’aria fresca mi veste di brividi. Inizio lentamente, pronta a fermarmi al minimo cedimento dopo la scorsa notte.

Correre è una terapia che ho scoperto a Seattle.

Quando i medici tornavano con le facce appese e l’incertezza negli occhi, mentre parlavano con i miei, io sgattaiolavo fuori dalla sala di attesa e cominciavo a correre fino a raggiungere l’Anderson Park.

Finito di percorrere il piccolo lago, il ponte e l’area giochi per i bambini, con i polmoni che mi scoppiavano mi sedevo su una panchina e maledicevo ogni fibra del mio corpo per essere stata tanto disobbediente.
Me ne stavo li, col fiatone e le gambe a penzoloni a fantasticare su come sarebbe stata la mia vita se avessi avuto un’adolescenza normale.

Se non mi si fosse letto addosso chi ero o cosa c’era che non andava in me, fino a che i miei con gli occhi gonfi ed i sorrisi tirati non venivano a recuperarmi.

 Corro a perdifiato, fino quasi non sentire piú le gambe.

Percorro la Midwest fino ad Arlow, dove un piccolo bosco sfiora la carreggiata. Supero la farmacia e mi avvicino molto al campus, rimanendo fedele alla strada che porta in periferia.

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