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GIORNATE NO

Erano passati diversi giorni, prima che noi potessimo rimettere un piede fuori dal portone di casa: i dì erano carichi di nuvoloni grigi che oscuravano il cielo, dalle finestre scorgevo solo metri e metri di neve ovunque, un'asfissiante sensazione...

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Erano passati diversi giorni, prima che noi potessimo rimettere un piede fuori dal portone di casa: i dì erano carichi di nuvoloni grigi che oscuravano il cielo, dalle finestre scorgevo solo metri e metri di neve ovunque, un'asfissiante sensazione di claustrofobia mi opprimeva il petto facendomi sentire in gabbia; le bufere notturne, con i loro tuoni rumorosi e i lampi accecanti, non mi lasciavano dormire in tranquillità: in dieci giorni avevo chiuso occhio, sì e no, per quattro cinque ore soltanto.

Ero a pezzi, irritabile, e con occhiaie spaventose che mia madre mi ordinava sempre di nascondere sotto chili di trucco che non mettevo.

Le giornate erano tutte così ripetitive e parevano senza fine. Da quando mi ero trasferita, con la mia famiglia, in quella cittadina, era come se non avessi mai avuto un passato prima di allora: non avevo quasi più memoria della mia vita prima di Snowy Mountain. 

Avevo dimenticato persino il sole, quanto fosse bello farsi baciare la pelle dai suoi caldi raggi, non ricordavo più neanche la sua luminosità: quando lo si intravedeva, qui, in questa città, era sempre velato da nuvole. 

Era come se fossi morta il giorno in cui avevo lasciato Pinglo City, come se quella lunga strada percorsa mi avesse portata in Purgatorio, ma, da come soffrivo e mi sentivo priva di speranza, pensai che non ero a un passo dal Paradiso, ma che quello in cui ero finita era più l'Inferno, che altro.

Tutto ciò che avvertivo era un glaciale tormento, di quell'ostile ammasso di montagne che ci circondavano, lo sentivo penetrare nelle mie ossa con violenza e col chiaro intento di piantarvi radici durature; un venefico gelo che non era dovuto solo al clima di Snowy Mountain: era come se in quel terreno vi crescesse qualcosa di purulento e di così sbagliato da far marcire le anime delle persone, rendendole crudeli e prive di morale.

Qualcosa di marcio mi stava lentamente divorando dall'interno: dato che non poteva contagiarmi, mi stava annientando poco alla volta e non vedevo vie di fuga per salvarmi dall'abisso.

Mio padre era stato di nuovo costretto a letto, dormiva avvolto sotto montagne di coperte e con una stufa elettrica vicina al materasso.

Mia madre si era rifiutata di restare in stanza con lui, in quanto temeva di poter essere contagiata da una qualche malattia infettiva che mio padre neanche aveva, così si era appropriata della mia camera da letto: ero stata costretta, visto che mia madre pretendeva di avere la sua privacy, a dormire in salotto, in un vecchio sacco a pelo di mio padre che, da giovane, aveva usato per andare in campeggio.

La camera degli ospiti era chiusa in quanto i vetri delle finestre erano mancanti, c'erano dei buchi enormi nel pavimento e vari cavi scoperti che facevano scintille.

Avrei potuto dormire su uno dei nostri divani, ma mia madre, con uno sguardo di pura rassegnazione dinanzi alla stupidità, mi rinfacciò: «Sei troppo grassa per allungartici sopra e poi questi divani non si trasformano magicamente in letti».

Mio padre aveva faticato a restare sveglio per più di un paio di ore al giorno, aveva persino smesso di mangiare, cosa che mi fece preoccupare: era come se si stesse lasciando andare.

Avevo provato a chiamare il medico, ma le linee telefoniche non funzionavano a dovere.

Quando finalmente ero riuscita a contattare col dottore, per informarmi sul da farsi, questi mi aveva semplicemente risposto: «Cerca di trovargli una ragione, un motivo per cui valga la pena restare vivo. Incoraggialo a non lasciarsi andare».

A quelle parole, avevo incominciato a temere sul serio di dover dire addio a mio padre, non c'erano stati istanti in cui funesti pensieri mi attraversavano la mente, non riuscivo a tollerare l'idea che potesse morire e lasciarmi sola.

Ogni giorno, entravo nella sua stanza, quando questi era sveglio, gli ricordavo di quanto io lo amassi e di come avrei sofferto se lo avessi perso.

Mi sforzavo di farlo almeno bere, gli preparavo brodini molto liquidi e caldi: lo vedevo che mio padre proprio non voleva mandare giù niente, i suoi occhi me lo dicevano con chiarezza, ma non aveva neanche la forza di alzare una mano per farmelo capire.

«Ti prego!» insistevo io, ricacciando indietro le lacrime per mostrarmi forte e determinata. «Fallo per me! Devi sforzarti!»

Mia madre non era entrata mai in camera, da quando mio padre si era sentito di nuovo male, piuttosto si lamentava, con me, del cattivo tempo che le impediva di poter ospitare le sue amiche e, di conseguenza, di non poterle andare nemmeno a visitare.

Io, invece, scoppiavo a piangere in silenzio, quando nessuno mi vedeva, alla sola idea di dover organizzare il funerale del mio papà, di perdere l'unico genitore (anche se muto) che davvero era dalla mia parte. Gli volevo bene: non avevo molte altre persone, a questo mondo, su cui poter contare e fare affidamento.

Fortuna volle che lui, dopo quel suo riposo forzato, nella camera che pareva diventata una sauna, si era rimesso in piedi da solo, anche se più pallido e smunto che mai e per non più di una decina di minuti al giorno.

Mia madre, per tutto il periodo di reclusione, non aveva voluto sentire scuse, nonostante nessuno potesse uscire ed eravamo stati avvertiti telefonicamente che persino la scuola era stata chiusa per un po': il signor Gorman doveva continuare a lavorare alla nostra dimora.

Quel povero uomo era costretto, ogni giorno, ad affrontare frustate di vento gelido, e ammassi di neve ghiacciata, per raggiungere casa nostra e lo doveva fare anche a piedi in quanto le auto erano tutte sepolte dalla neve. Ogni volta che varcava la nostra soglia, avevo paura che questi potesse morirmi davanti: il suo viso era provato dal freddo, il signor Gorman era così intirizzito che ci metteva sempre un po' per ricominciare a muoversi normalmente.

Per quanto scontenta, mia madre dovette tollerare, in casa nostra, la presenza di Drake, che accompagnava puntualmente il padre; dovette sopportare che rimanessero anche a pranzo da noi, e a cena (quando i lavori richiedevano più tempo del previsto).

«Mamma!» le avevo fatto notare, con tutta la calma del mondo. «Non possiamo rimandarli a casa con questo tempo, per mangiare, per poi farli tornare qui dopo aver finito.»

Zaya Barlow non era convinta, lo avevo intuito da come si teneva le braccia incrociate al petto e dalla smorfia di disappunto che le imbruttiva il viso truccato alla perfezione.

«Che non si dica che io mangi insieme a dei miserabili dipendenti!» aveva affermato lei con disgusto, la prima volta che le avevo fatto questa proposta.

«Non vederla così!» avevo insistito io cercando di impostare la voce in modo che poteva pensare di aver avuto lei l'idea: non desideravo arrendermi, non se questo significava restare ancora più tempo con Drake e con il suo buonumore contagioso. «Dico solo che, mostrare generosità e disponibilità verso le altre persone più sfortunate, potrebbe apparire agli occhi altrui come un bel gesto.»

«Sì,» aveva ammesso infine mia madre che, con fare fanciullesco, giocherellava con una ciocca dei suoi capelli lisci e neri, «di me direbbero tutti che ho un cuore buono e altruista, cosa che è già vera, ma se fosse risaputo anche dagli altri, sarebbe ancora meglio. Se mi vedessero essere tollerante con quel delinquente, mi descriverebbero tutti come una donna assolutamente amorevole. Ho avuto una buona idea! I Gorman rimarranno qui a pranzo ogni volta che sarà necessario e farò preparare dei piatti deliziosi da tuo padre! Il signor Gorman parlerà bene di me in ogni altra casa in cui andrà a lavorare: dirà che sono una buona padrona di casa e una cuoca sopraffina! Che bella cosa!»

Avrei amato solo teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora