Sedici

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Festival del Cinema di Cannes, 1969.

Il Palais de Festivals era quasi la metà di com'è oggi, ma in compenso il Casinò adiacente si riempiva ogni sera di attori e registi, con l'unico scopo di far spendere loro tutti i cachet, illudendoli di regalare loro una fortuna che in realtà avevano già.
Almeno secondo il mio punto di vista.

Ai tempi lavoravo come chef nel ristorante Chez Astoux, nella stradina parallela del recente Palais. Si faticava tanto, si veniva pagati altrettanto.

Per me era un'opportunità unica per mettermi alla prova. Insomma, immagina un semplice cuoco genovese sbarcato all'improvviso al centro di un pianeta popolato da star, in un ristorante pieno ogni sera di attori, attrici, registi e – come diavolo si chiamano quelli che scrivono i film – ah, sceneggiatori!

Il francese lo parlavo poco e l'inglese ancor meno. Per me era tutto un ripetersi senza senso di parole come steac or fisc, iea, donnou, iour ciouse da parte dei clienti; ui, trua, cattre porzion, vualà, merd e coscion da parte del proprietario.

Avevo cominciato già da un paio di mesi, e la settimana del festival era per me era il momento giusto per mettere in pratica le mie sperimentazioni culinarie. Eppure, nonostante i miei sforzi, nessuno che avesse mai notato una volta la mia cucina. I clienti si sedevano, ordinavano, mangiavano e poi andavano via.

Ricordo che i film sulla bocca di tutti erano soprattutto Quel freddo giorno nel parco di Robert Altman ed Easy Rider di Dennis Hopper.
Soprattutto quest'ultimo.

La gente era sconvolta da Easy Rider; si parlava già di capolavoro e di manifesto per un'intera generazione, mentre io non avevo visto nient'altro che la locandina in giro per la città.
A parte la difficoltà nel reperire un misero biglietto di quarta programmazione, lavoravo di continuo, e le mie ambizioni crescevano di giorno in giorno. Mi chiedevo ossessivamente come avrei potuto competere con gli chef più rinomati se me ne stavo in quel buco per tutto il periodo del festival. Avrei dovuto – pensai – partecipare alle feste che si organizzavano al Carlton, al Majestic o sugli yacht in mezzo al mare sponsorizzati da Universal, per trovarmi faccia a faccia con una vera star e dimostrare le mie capacità.
Poi, il terzo giorno, vidi davanti a me l'opportunità. Quella con la O maiuscola, se non con tutti i caratteri maiuscoli: L'OPPORTUNITÀ.

Al tavolo all'angolo del ristorante sedevano Dennis Hopper, Peter Fonda, Jack Nickolson e Terry Southern, quest'ultimo già famoso per aver steso la sceneggiatura de Il Dottor Stranamore assieme a Stanley Kubrick nel 1964.
Con loro c'era una signora. Sì, era tua proprio Anna: tua nonna.

Non chiedermi che cavolo ci facesse lei con il cast di Easy Rider, so solo che parlava un inglese perfetto con loro e un francese impeccabile con i camerieri. Quanta eleganza! M'innamorai subito di quel visino fresco e malizioso allo stesso tempo.

Preso dalla passione per la cucina – e dalla volontà di fare bella figura agli occhi dei presenti – decisi di preparare la mia ricetta di punta, la chiave che mi avrebbe permesso di entrare nell'olimpo degli chef stellati internazionali: tartare di pollo con lime, bacche di ginepro, crema di gelso e nocciole del Piemonte tostate in un forno alimentato a legna di frassino tenuta viva con un argano manuale.

Tutta la mia carriera crollò in un istante.

Che ne sapevo io che il pollo non va mai servito crudo?
Sulla base di quale strano principio il manzo, il pesce e persino il maiale si possono servire crudi e il pollo no? Un giorno, caro ragazzo, la cucina dovrà chiedermi scusa.
Sta di fatto che mi licenziarono per aver quasi intossicato il cast principale di Easy Rider.

Soltanto Anna rideva di gusto.
Si avvicinò a me dopo aver visto la tremenda gogna che avevo appena subito d'avanti ai presenti, al centro della sala – con successiva cacciata a calci nel didietro da parte del proprietario – e mi disse: «Il pollo crudo è ancora troppo avanti per questi mangia-bistecche e ciuccia-lumache. Forse non lo sarà nemmeno tra trenta o quarant'anni, però un giorno accadrà, e saprai di essere stato un pioniere della cucina raw di pollame. Magari quando riusciranno a debellare la salmonella e il campilobatterio».
Aprì la borsetta e tirò fuori un biglietto da visita: «Chiamami stanotte, ho bisogno di un uomo come te». Poi andò via insieme a quei mangia-bistecche famosi ma non troppo.

Chiamai Anna la sera stessa.
Credevo si trattasse di un appuntamento amoroso, così feci una doccia calda, mi sistemai la barbetta e mi immersi nell'acqua di colonia fino alle mutande. L'abito elegante l'avevo preso in prestito in una sartoria a Genova, e ogni volta che lo indossavo sentivo il peso della caparra lasciata lì a coprire gli eventuali danni.
Mi muovevo per la croisette come un uomo nudo avvolto nel filo spinato; rigido e attento ai calici tintinnanti della gente nei locali all'aperto, agli uomini che gesticolavano con i sigari cubani appena fuori dal Palais e ai cagnolini delle ricche signore che pisciavano sulle scarpe dei passanti come tante piccole fontanelle pelose.

Entrai nel Casinò e la notai subito, avvolta in un abito bordeaux audacemente attillato.
Era in piedi al tavolo da poker, alle spalle di un uomo sulla cinquantina intento a giocare. Gli accarezzava la schiena ogni volta che lui faceva una puntata, e ad ogni vincita gli dava un bacio appassionato sulle labbra.

Appena mi vide abbozzò un sorriso complice, accompagnato da un sorso di champagne attraverso un flute sottile come il becco di un cigno. 
Disse qualcosa all'orecchio dell'uomo e si allontanò, ondeggiando sinuosa verso le slot machines. Mi fece cenno di seguirla.
«Vorrei precisare che non sono un'accompagnatrice, anche se mi vendo come tale. Lo vedi quel galletto lì, intento a giocare? È Harve Bennet, autore e produttore tra i più promettenti del momento.»
«Non lo conosco.»
«Scrive di fantascienza, e nei prossimi anni gli Studios vogliono puntare su di lui per alcune produzioni. Dennis mi ha confidato che Harve ha acquistato dei diamanti qui, a Cannes, per poter passare la dogana indisturbato. Gioca tanto e vince altrettanto; sta per portarsi a casa sei milioni di dollari ma non vuole rogne con la polizia, per questo li ha cambiati in pietre preziose. Il suo piano è di ingoiarle domani sera all'aeroporto di Nizza e di evacuarle in un sacchetto di plastica una volta arrivato a Los Angeles.»
«Scusami, ma le parole sei, milioni, e dollari mi hanno distratto da tutto il resto della storia. Sei sicura che li abbia vinti al gioco?»
«Non m'importa e non voglio saperlo. Comunque, stanotte vado in camera sua e mentre lo distraggo tu sostituisci i diamanti con delle copie che ho qui in borsa.»
«Sembra rischioso. Che ci guadagno?» chiesi. Avevo bisogno anch'io di soldi. Magari anche solo mille o cento dollari. Mi sarei accontentato persino di una notte di distrazione con lei.

«Ne parleremo dopo.»

Accettai, e la notte mi intrufolai in albergo.
Anna aveva lasciato la porta aperta, così entrai nella suite di soppiatto. Cercai di non far caso ai gemiti che provenivano dalla camera da letto e mi recai direttamente in salotto.
Frugai nella valigia, presi il contenitore che mi aveva indicato precedentemente tua nonna. Era un tubetto di Smarties pieno zeppo di piccoli diamanti. La luce emanata da quelle pietre era stupefacente. Restai immobile a fissarle, ipnotizzato dalle loro innumerevoli sfaccettature, poi afferrai le copie e le sostituii alle pietre originali.

L'indomani rimasi con quei diamanti in borsa – chiuso assieme a loro nella mia camera d'albergo – per tutto il giorno, finché la sera non squillò il telefono.
«Harve è già in volo sulle nostre teste. Vediamoci tra un'oretta sotto la torre di Castre. È un bel percorso in salita, ma almeno saremo lontani da occhi indiscreti.»

Camminai per non so quanto tempo. Ero stremato, completamente distrutto e zuppo di sudore.
Arrivato alla torre Anna mi ringraziò per la mia discrezione e professionalità, poi mi afferrò per le mani e mi baciò.
«Immagino che questo sia un addio» le dissi.
«No, non lo è. Terrò questi diamanti per noi due, ce li spartiremo cinquanta e cinquanta, ma solo quando si calmeranno le acque. Magari tra un anno, dieci, o anche di più, ma accadrà.»

Così, quella fu l'ultima volta che la vidi.

O almeno fino a qualche mese fa...

Era un bravo vicino. Salutava sempreUnde poveștirile trăiesc. Descoperă acum