Venti

237 50 9
                                    

«Oggi è un grande giorno, ammazza-vecchiette.»
Quel sorriso glielo staccherei dalla faccia. Tre anni, per tre lunghi anni ho sopportato quelle sue smorfie di derisione.
Non riesco mai a guardarlo dritto negli occhi. Fisso ogni volta la sua bocca, quella fessura dentata sovrastata da un folto baffo ingiallito dalla nicotina. Sembra lo scopino di paglia che usava mia nonna per spazzare la cenere dal caminetto.
«Ehi ammazza-vecchiette, parlo con te!»
Visto così potrebbe avere una sessantina d'anni, ma può darsi che i baffi giallastri e la pelle esageratamente rosa gli diano più anni di quanti ne abbia in realtà.
Non che io abbia un colorito di turista appena tornato da Santo Domingo, sia chiaro, ma almeno non sembro un maialino da latte.
Il carcere sbianca più della candeggina, fa desiderare i raggi del sole quanto la rugiada per gli assetati, e allo stesso tempo tutta questa luce artificiale delle celle ricorda che là fuori esiste ancora un mondo che continua a muoversi anche senza di me.
«Firma i tuoi documenti e vattene. Sei contento?»
Rispondo con un «sì» appena fischiato tra i denti.
«Sono sicuro che ci vedremo presto, sempre che tu abbia altri parenti da uccidere per la pensione.»
«Ho un lontano cugino finto invalido», faccio io.
Il maialino rosa comincia a ridere grufolando e battendo energicamente le mani sul tavolo.
«Quando finisce questa pagliacciata?», chiedo, e lui si avvicina così tanto alla mia faccia che riesco sentire il suo fetore di sigaretta e Big Mac mal digerito.
Risponde: «Quando cazzo lo decido io, brutto ammazza-vecchiette».
Si alza di scatto e incrocia le braccia fissando la finestra. Attraverso le sbarre vedo pigri fiocchi di neve fluttuare e aggrapparsi sul lastrico della piccola area ricreativa a cielo aperto, chiamata dai carcerati «Il buco d'ossigeno».
«Ok, cercherò di essere il più professionale possibile» dice. «Nonostante tu non mi sia mai piaciuto, vorrei fare il punto della situazione, cercare di ricordarti le responsabilità che ti sono state accollate e per cui hai ormai pagato con la detenzione. Ora che il tuo debito è saldato spero che la tua vita prenda una piega differente – non ci credo ma sono costretto a dirlo –, lontano dalle nefandezze che hai già compiuto.»
Mi verrebbe da dire: «Certo che ne sono consapevole, ma adesso fatemi uscire». Invece lui respira profondamente e continua: «Il passato di tua nonna raccontato dal signore anziano che ti portavi dietro sono... erano solo invenzioni: il delirio senile di un uomo annoiato dalla sua routine, vicino alla morte e deluso dalla vita. Lui ti ha condizionato, ed entrambi avete condizionato altri anziani. L'arteriosclerosi è l'unico protagonista di questa vicenda. Diamanti nascosti chissà dove; storie di truffe, cospirazioni e bande improbabili in giro per il mondo... Come hai fatto a crederci? Pensi davvero che tua nonna abbia avuto una vita così emozionante? Mi spiace deluderti ma era solo una normalissima anziana, una buona cristiana e una brava persona. E lo eri anche tu. Tutti nel quartiere mi hanno detto che eri un bravo vicino. Quindi...» – e fa un'altra lunga pausa – «torna ad esserlo. Ricostruisciti una vita e trovati un lavoro serio e onesto. Fine del discorso formale. Adesso fuori dai coglioni».

Le porte del carcere sono già chiuse alle mie spalle. Le automobili scorrono per strada incuranti della bufera di neve che sta per avvolgere tutto il Paese.
Fisso il cielo. I fiocchi si sciolgono sulle mie guance ancora calde; sbuffo vapore dalla bocca fingendo di fumare una sigaretta. A proposito, in tasca ho così pochi spiccioli che non potrei comprare neanche un accendino. Non ho più una macchina, né un amico a cui telefonare per chiedere uno strappo fino a casa.
Sono da solo, ma in fin dei conti lo sono sempre stato.
La strada verso casa non è tanto lunga, ma dopo tre anni di carcere percorrere anche un solo chilometro diventa un'impresa: ho il fiatone e la tachicardia.
Le mie scarpe scivolano sul ghiaccio come i sassi usati nel curling, così devo aggrapparmi ai muri dei palazzi o alle auto parcheggiate.
Nella testa ripenso a quanto mi è stato detto in carcere. Sono stato manipolato dal delirio arteriosclerotico di un gruppo di anziani. È dura essere coscienti della propria stupidità.

La casa di mia nonna ha la porta d'ingresso divelta. Gran parte dei mobili sono stati portati via dai ladri, e a quanto pare qualche barbone ha dormito e cacato in soggiorno a tempo indeterminato.
Un topo ha rosicchiato il cavo della tivù ed è schiattato con gli occhi spalancati. Mi fissa, ed è un po' come se mi stessi guardando allo specchio.
Esco e mi avvicino alla casa del signor Mario. Busso alla porta e cerco di scaldarmi le mani alitandoci sopra.
La neve ha cancellato i colori dai tetti, dagli alberi e dalle strade.
«Sì?»
Dalla porta di casa del signor Mario sbuca una donna sulla cinquantina.
«Buongiorno, cercavo il signor Mario...»
«I vecchi proprietari. Mi spiace, ma sono... Ecco... Non ci sono più. Sono morti anni fa.»

Era un bravo vicino. Salutava sempreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora