Stitch

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CAPITOLO 13

Erick's Pov

Tornai a casa dopo aver sentito la campanella. La fioca luce che penetrava nella mia stanza, permetteva di distinguere poco o niente da quella che era la mia stanza. Intravidi una piccola letterina appoggiata sul mio materasso, così la presi e la spostai sul mio comodino, promettendo di leggerla più tardi. Sentivo aria di notizie brutte, quasi orribili, ma non ne ero in vena. Dopo l'accaduto con Felipe, non sapevo che pensare. Mi aveva baciato dopotutto e questa cosa, un ragazzo a cui piacciono le ragazze, non lo fa. Non nego che mi fosse piaciuto, anzi era stato il bacio più bello e inaspettato della mia vita ma aveva anche il suo retro gusto, come tutte le cose. Come poteva essere che dopo due giorni ad avermi trattato da schifo, arriva al punto di baciarmi? Ah, la mente umana che grandi complessi che si fa! In ogni caso, non avrei dato molta importanza a quel bacio perché, dopotutto, lui non avrebbe mai confessato che io gli potessi piacere o anche solo interessare. Non era un ragazzo che non si sarebbe fatto problemi a starmi accanto, ma mi avrebbe solo trattato male. Non avrei detto niente del bacio, ma non per fare un favore a lui, bensì perché era un piccolo ricordo che volevo tenere solo per me. In fondo, la speranza era l'ultima a morire, ma era un punto lontanissimo da concretizzarsi. Quella sensazione di piacere corrermi lungo la schiena non l'avrei più provata secondo me.

Ci eravamo baciati con le labbra, che lente si incatenavano. Ci eravamo esplorati con le lingue, dando origine ad intrecci e sciogliendoli un'attimo dopo. Le nostre mani cercavano sempre un nuovo punto del corpo dell'altro da tastare, che impazzite andavano a stringere ogni lembo dei nostri vestiti possibile da afferrare. Erano fugaci i momenti in cui tornavamo a respirare, prima di ricominciare ad appoggiare le labbra su quelle dell'altro e riprendere la danza. La cosa che mi stupiva di più era la partecipazione che Felipe dava a quel bacio. Sembrava veramente volerlo, ma avevo i miei dubbi. Pensavo fosse l'inizio di un'altro scherzo che volevano farmi, così lo abbandonai da solo in quella sala solo per avere tempo di pensare alle conseguenze che avrebbe portato quel gesto. Quando aprii la porta, fui sollevato dal fatto che non ci fosse nessuno ad aspettarmi e prendermi di peso per poi malmenarmi. Non avevo proferito parola per tutto il resto della giornata, solamente gesti che alludevano ad una risposta.

In quella stanza, il silenzio era sovrano. Ne avevo paura, avevo terrore del silenzio. Sin da bambino, lo odiavo con tutto me stesso. Alcuni lo ritenevano parte della musica, ma io lo trovavo inquietante. Tutte le cose belle succedono quando si fa rumore, non quando si rimane zitti. L'amore, le risate, la felicità sono tutte cose nate dall'inizio di un rumore ben definito. Io, con il tempo, avevo perso l'abitudine di vivere con esso. Da quando tutto ha iniziato a prendere una piega ben diversa da come prima accadeva, ho imparato ad adeguarmi a quella vita rumorosa e frenetica che mi ritrovavo. Non era facile per un ragazzo, che sin da piccolo, aveva capito che non era come gli altri ragazzini della sua età. Mentre i maschietti cercavano sempre delle fidanzatine di cui si sarebbero vantati poi nel gruppo, io rimanevo in disparte a guardarli. Affrontare tutto da solo fino a questo punto, era stata dura ma ce l'avevo fatta. Avevo delle amiche fantastiche che mi aiutavano in qualunque cosa potessi necessitare, ma non potevano donarmi l'apprensione dei miei genitori. Di loro, avevo timore. Ogni volta che si toccava quest'argomento, sembravano agitarsi e io mi sentivo impacciato. Mia sorella era l'unica a sapere tutto, ma cosa può fare una bambina di soli 10 anni - quasi 11 - se non dirti solamente "andrà tutto bene"? Con i miei due fratelli maggiori - di 25 e 39 anni rispettivamente - non avevo un rapporto chissà quanto grande, ci limitavamo a scherzare ma non a raccontarci cose come chi ci piacesse. Da loro non mi aspettavo che mi capissero, ma almeno che ci sarebbero stati in caso di bisogno. Non avevo intenzione di raccontare la verità, anche se più volte avevo tentato di farlo. I miei genitori erano molto lontani da saperla e, nonostante le innumerevoli moine di Angel e Clarabel, dovevo dirgliela ma non ne trovavo il coraggio. Avevo paura di un loro giudizio, paura che potessero rifiutarmi, paura che non mi volessero più bene come avevano fatto fino ad adesso, ma anche paura che mi avrebbero trattato diversamente. Quando non sapevo con chi confidarmi e le mie amiche non potevano capirmi, avevo una persona che mi aiutava sempre: mia zia Giorgia. Era una donna sulla quarantina che aveva passato molto tempo, anche troppo, a fare il giro di tutto gli ospedali.

L'amore é uguale per tuttiWhere stories live. Discover now