Capitolo 19

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Cinque anni. Erano passati cinque anni da quando Jimin aveva visto i suoi genitori per l'ultima volta, ed era stato un addio tutt'altro che piacevole. Anche solo il ricordo gli provocava forti sensi di nausea e dolore. Per cinque anni aveva cercato di non pensarci, di tenere il ricordo della sua famiglia lontano da sé, ma non era facile. Non era mai stato facile.

***

"Vattene subito da questa casa e non tornare mai più." disse l'uomo, indicando la porta con espressione seria stampata sul volto. Al contrario, Jimin stava piangendo, gli occhi rossi e il viso rigato dalle lacrime.

"A-Appa ti prego..." singhiozzò, facendo un passo verso il padre, il quale si allontanò di riflesso da lui, per non farsi toccare dal ragazzo.

"Stammi lontano. E non chiamarmi così. Io non sono tuo padre, io non ho un figlio gay." sibilò con disgusto il signor Park, scuotendo la testa. Jimin sembrò farsi ancora più piccolo di quanto già non fosse, incassando la testa fra le spalle.

"Appa, io... m-mi dispiace Appa, non... non volevo..." balbettò, soffocato dalle lacrime e dai singhiozzi. Cosa non voleva? Di cosa si stava scusando? Di essere omosessuale? Di essere attratto dai ragazzi, invece che dalle ragazze? Bastava questo a cambiare l'opinione che suo padre aveva di lui? Bastava questo a renderlo agli occhi del suo stesso genitore... un mostro?

"Ti ho detto di non chiamarmi in quel modo. Tu non sei mio figlio." ripeté con voce velenosa l'uomo. "Adesso prendi le tue cose ed esci subito da casa mia. Non voglio vederti mai più." sussurrò.

Jimin si passò una mano sul viso, strofinandosi gli occhi già rossi e irritati dal pianto, per poi girarsi verso sua madre, ancora seduta sul divano dove si era accomodata quando il ragazzo aveva annunciato che aveva una cosa da dire ai suoi genitori.

La donna era rimasta in silenzio per tutto il tempo, le sue espressioni facciali parlavano molto più di quanto potesse fare la sua bocca. All'inizio curiosità, impazienza, ma anche timore. Infine, una volta venuta fuori la confessione di Jimin, stupore, delusione, disgusto, dolore.

"Eomma... ti prego... di' qualcosa..." mormorò lentamente il ragazzo, avvicinandosi e inginocchiandosi davanti a lei, prendendo le sue mani, strette in piccoli pugni sulle ginocchia e stringendole nelle proprie. Non sapeva di preciso cosa volesse sentirsi dire. Sicuramente parole di conforto. Voleva che sua madre gli dicesse che andava tutto bene. Che non doveva andarsene, che suo padre stava esagerando. Che lei lo accettava per quello che era e che gli voleva bene comunque.

Ma niente di tutto questo uscì dalla bocca di sua madre.

La donna distolse lo sguardo dal figlio e sfilò le mani dalla sua presa. Jimin sentì qualcosa dentro il suo petto scheggiarsi dolorosamente.

"Dovresti andare, Jimin." disse semplicemente, senza nemmeno guardarlo in faccia. Se prima il ragazzo aveva sentito qualcosa scheggiarsi, a quelle parole fu certo che il suo cuore fosse andato completamente in frantumi. Persino sua madre, la donna che lo aveva sempre protetto e amato non voleva avere più niente a che fare con lui.

Il ragazzo si mise in piedi, nonostante si sentisse instabile sulle gambe, leggermente tremanti e si passò, forse per l'ennesima volta la manica della felpa che indossava sul viso, asciugandosi le lacrime che non accennavano a smettere di uscire. Senza rivolgere neanche una parola ai suoi genitori prese il suo giubbotto e uscì di casa, senza guardarsi alle spalle.

Sarebbe tornato a prendere le sue cose in un secondo momento, magari quando sua madre e suo padre non erano in casa. Ma non in quel momento. Ora voleva solo mettere più distanza possibile tra se stesso e quella casa. Ma soprattutto tra se stesso e quelle persone che un tempo considerava la sua famiglia.

Paroxysm || myg/pjmDonde viven las historias. Descúbrelo ahora