Capitolo 2

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Il locale è veramente carino, di quelli dallo stile un po' rustico e dimenticato, ma che in realtà sono studiati nei minimi dettagli. Lucrezia mi racconta di come sia uno dei preferiti dagli studenti, sia per il cibo che per i prezzi convenienti. Ci sediamo al tavolo e ordiniamo due panini e da bere: io ordino una coca mentre lei ordina una birra, una ragazza che va diritta al punto. Il panino è davvero buono e lo mangio più velocemente del solito, riuscendo a gustarmelo comunque fino in fondo. Lucrezia mi guarda con aria soddisfatta. 

Sto ancora mandando giù l'ultimo morso quando un ragazzo si avvicina al nostro tavolo e saluta Lucrezia, che nel frattempo si è alzata per rispondergli con un abbraccio, di quelli goffi e travolgenti di chi si conosce bene, da sempre. Da brava asociale quale sono, rimango in silenzio e mando giù l'ultimo pezzo del mio panino. Non mi passa neanche lontanamente per l'anticamera del cervello l'idea che Lucrezia voglia presentarmi a questa persona, ed è il motivo per cui quando lei gesticola verso di me, io vorrei solamente scomparire.
«Lei è Emma» mi introduce, senza il mio consenso, e un principio di ansia mi piomba addosso in tempo zero.
«Lui è Cesare» continua. Allungo la mano impacciatamente, a stringere quella del ragazzo, e a bassa voce rispondo con un "piacere" di circostanza. È un ragazzo piuttosto muscoloso, con i capelli e gli occhi scuri e quel tocco di barba tipico dei ragazzi intorno alla sua età. Noto che lui mi guarda in modo strano, sicuramente mi si legge in faccia il disagio assoluto. Vorrei far finta di sorridere davanti a questo ragazzo con un sorriso che, fuori da questa circostanza, sarebbe decisamente un sorriso contagioso.
«Scusami tanto, ma mi sento un mostro a non dirtelo» dice lui dal nulla, «ma hai del ketchup sul mento» mi fa notare, indicando con un dito il punto in cui ero sporca.
Credo di avvampare. Mi pulisco in fretta e sto giusto pensando che le cose non potrebbero andare peggio, quando un altro gruppo di ragazzi raggiunge Cesare, e anche loro sembrano conoscere Lucrezia. Lei è in piedi e li sta salutando uno ad uno, mentre io rimango seduta come un'ebete, e bevo dal bicchiere quasi vuoto facendo finta che in realtà sia ancora pieno, finché è troppo palese che sia vuoto e sono costretta a smettere per non mettermi in ridicolo. Ovviamente non c'è scampo, perché Lucrezia mi invita ad alzarmi per andare a pagare il conto, così poi possiamo unirci ai suoi amici e fare un giro per il centro. Rimango un attimo impallata, non ero preparata a questa evenienza. Tiro un sospiro e mi alzo.

Fortunatamente Bologna di sera è qualcosa di stupendo e a cui non voglio rinunciare, perché sono sicura che altrimenti avrei già trovato una scusa per andarmene. Fuori dal locale faccio appena in tempo ad indossare la giacca che Lucrezia sta già facendo le presentazioni. I ragazzi sono in 6 e mi si presentano uno dopo l'altro: oltre a Cesare c'è Nelson, che a quanto pare è suo cugino ma l'unica somiglianza è nel colore dei capelli e degli occhi, e forse anche un po' nella barba, ma per il resto Nelson porta gli occhiali ed è più magro, più smilzo. Poi mi si presenta un tale Francesco, alto, biondo e con gli occhi chiari, che ricorda un po' un vichingo, ma appena mi invita a chiamarlo "Tonno" quell'immagine mi sparisce dalla testa, sostituita da quella di un pesce con la barba rossiccia. Subito dopo si presenta anche Nicolas, lui è più piccolo in altezza e non mi invita a chiamarlo come un pesce, ma mi sorride tranquillo e nel farlo mi alleggerisce un po' la tensione. Frank – che in realtà si presenta come Davide, ma tutti mi dicono di chiamarlo Frank – arriva subito dopo e credo che la sua voglia di stringere mani e scambiarsi convenevoli sia pari alla mia, se non a livelli ancora più bassi: non so se sia questo o il suo cesto di capelli ricci a farmelo stare particolarmente simpatico. L'ultimo a presentarsi è un ragazzo alto con i capelli castani e gli occhi di un castano più profondo. Dice di chiamarsi Dario e non riesco a non fare caso alla sua voce, ben definita e profonda, che mi provoca un piccolo brivido dietro alla nuca, come quando senti il rumore del mare e vorresti portartelo nei sogni quando vai a dormire. Gli faccio un sorriso di circostanza, ma lui non ricambia, l'espressione un po' cupa.
Dopo le presentazioni mi sento comunque più tranquilla, la parte più "difficile" è passata e sembrano tutti bravi ragazzi. Forse, dopo tutto, potrebbe rivelarsi una serata piacevole.

Pensavo che saremmo andati in un altro locale, in un pub o addirittura in una discoteca: è ciò che ho sempre immaginato pensando alle serate da "fuori sede". In realtà siamo seduti sulle scale della chiesa, un po' come facevo io nelle piazze della mia città, e stiamo parlando di tutto e di niente tra un sorso di birra dalla bottiglia da 33 cl e un tiro di sigaretta. Io non sono una gran bevitrice, e non fumo neanche, ma l'atmosfera che si è creata ha bisogno dell'accompagnamento amarognolo del malto sulle labbra, e quindi mi ritrovo a sorseggiare un po' di birra anch'io.
Senza volerlo divento il centro dell'attenzione, come succede sempre quando sei "quella nuova" che per la prima volta arriva in città. Mi chiedono cosa ne penso di Bologna, le mie impressioni, i motivi che mi hanno portata qui. Ogni sorso di birra corrisponde a un "Ma ci sei mai stata qui? No, ti dobbiamo portare assolutamente" ed altri appassionati discorsi sulla bellezza dei portici, sulle vertiginose torri e sul fascino dei colli bolognesi. Più li sento parlare e più mi viene voglia di farmi portare ovunque, a scoprire ogni angolo e ogni luogo nascosto, dal più romantico al più dimenticato.
Lucrezia mi racconta di come si sono conosciuti durante l'Università, ma soprattutto mi racconta dell'ultima estate che hanno passato insieme. Sento salire un po' d'invidia, ma la birra la spinge via prepotentemente.
Quando le birre finiscono i discorsi non si esauriscono, e mi sto divertendo da morire, ma domani devo svegliarmi presto per sistemare le valigie e organizzare la mia nuova stanza, quindi è il momento di andar via. Lo dico a Lucrezia, ma lei non ne vuole sapere, è abituata a stare fuori molto più a lungo, a fare le ore piccole, e non ne vuole sapere di tornare a casa. Mi sento colpita sul personale, perché ero davvero convinta che saremmo tornate insieme e che non mi avrebbe lasciata sola a vagare per le strade di Bologna dopo mezzanotte. Inizio a sentire l'ansia, l'idea del buio delle strade di una città che ancora non conosco a fondo mi spaventa da morire.
«Ti accompagno io» si offre Dario, come se mi avesse letto nel pensiero.
«Se vuoi» aggiunge, quasi avesse timore di aver avanzato una proposta scomoda. C'è un attimo di silenzio in cui tutti si lanciano occhiate che non riesco a decifrare, sarà che ho bevuto. Mi affretto ad accettare la proposta, prima che Dario possa cambiare idea o prendere il mio silenzio per un rifiuto.   

Salutiamo tutti e ci allontaniamo. Dario affonda le mani nelle tasche dei pantaloni e si mantiene a debita distanza, mentre le mie mani si stringono intorno alla tracolla della borsa, perché non sanno dove altro andare.
«Allora, ti sei divertita stasera?» mi chiede lui, per rompere il ghiaccio. Menomale che ho bevuto quella birra, altrimenti non avrei la scioltezza per affrontare una conversazione con la sicurezza con cui lo faccio adesso.
«Mi sono divertita» rispondo. «Anche se devo ammettere che all'inizio della serata non ne ero così sicura». Lui mi guarda storto, ed è buffo perché le sue sopracciglia seguono il suo sguardo alla perfezione e si avvicinano in una specie di broncio. Spero non sia serio, perché mi scappa un po' da ridere.
«Niente di personale» mi affretto a precisare. «È solo che sono una persona abbastanza asociale e mi sono ritrovata all'improvviso in questo gruppo, stasera, e non sapevo come comportarmi con tutte quelle presentazioni».
«Però alla fine è andata bene» adesso mi guarda con un mezzo sorriso, le mani ancora nelle tasche dei pantaloni.
«Sì, è andata bene».
«Come ti sembra Bologna?» mi chiede, e credo voglia saperlo davvero. Ci penso un attimo prima di rispondere, ma la risposta mi è balenata in testa come un flash ancora prima di realizzarlo.
«Autentica» rispondo.
«Autentica?» mi fa eco lui, e gli scappa un verso che è una via di mezzo tra una risata e uno sbuffo.
«Che c'è? Che ho detto di strano?» automaticamente mi fermo mentre gli faccio questa domanda, e lui si ferma con me.
«Niente, niente. È solo che quando faccio questa domanda a qualcuno di solito mi dicono che Bologna è bella, viva, cose così» mi spiega lui, «la tua risposta mi ha lasciato un po' spiazzato, perché anch'io quando penso a Bologna la sento così». Mi guarda, le mani ancora dentro le tasche dei pantaloni, mentre ondeggia sui piedi. «Autentica» ripete, mentre riprendiamo i nostri passi sulla strada.
«E della tua città, invece, che mi dici?» mi chiede.
«Beh, non è come Bologna» rispondo, ed entrambi sorridiamo.

La mia residenza non è molto lontana dal centro, ormai siamo solo ad un centinaio di metri di distanza. Mi sento leggera, stasera, e non riesco a frenare l'emozione al pensiero di passare altre serate così. Dario continua a parlarmi della sua amata città e di quanto sia importante fermarsi ad apprezzare le cose, i luoghi, i momenti, senza mai mettersi fretta. Continua a ripetermi che devo assolutamente salire sulle Torri, e che non capirò mai la vera essenza di Bologna finché non l'avrò ammirata dai suoi colli. La sua voce è così profonda quando parla delle cose che lo appassionano, e la verità è che sembra appassionato da tutto e da niente allo stesso tempo. Dice che potrebbe stare a parlare del nulla per ore, e vorrei che avessimo tutto quel tempo a disposizione.
Ma siamo arrivati davanti all'entrata dell'edificio e ci dobbiamo salutare. Senza rendercene conto abbiamo seguito il percorso più lungo, o forse lo sapevamo benissimo e senza dire niente abbiamo deciso insieme che era giusto così.
Ho sempre odiato i convenevoli, i due baci sulla guancia quando devi salutare qualcuno. Dario mi si avvicina ed è un saluto molto impacciato: vado nella direzione sbagliata e i nostri nasi si scontrano, le nostre labbra troppo vicine. Rido imbarazzata e vado nella direzione giusta, ma più che baci sulla guancia quelli che gli do sono baci sulle orecchie, ma lui non me lo fa notare e dentro di me lo ringrazio per questo.
«Ti ci devo proprio portare, sui colli bolognesi» è ciò che mi dice prima di allontanarsi.
Lo osservo mentre si avvia per le strade silenziose illuminate solo dai lampioni gialli, e qualcosa mi si smuove nello stomaco quando vedo che si gira e mi guarda da lontano. Tira fuori una mano e mi accenna un altro saluto, prima di rimetterla in tasca e continuare per la sua strada.

"Ti ci devo proprio portare, sui colli bolognesi".
È forse una promessa?          


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Un estratto dal prossimo capitolo: 

[...] La mia mente va automaticamente a quella sera, e penso ai colli bolognesi e alla promessa di Dario. Che poi se sia davvero una promessa io non lo so, ma in fondo un po' ci spero. Scaccio l'immagine di lui che mi sorride prima di salutarmi, perché non voglio perdermi in sogni ad occhi aperti. Non ho più avuto notizie di loro, e non ho più rivisto Lucrezia. A volte viene da chiedermi se sia stato tutto un sogno.

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Ciao a tutti! Come avrete intuito dal titolo e dal finale di questo capitolo, la mia fan fiction sarà incentrata più su Dario che sugli altri membri della Valle, che saranno presenti (chi più chi meno) ma con un ruolo più marginale. Inoltre, non inserirò il canale Youtube e in generale i loro video all'interno della mia storia, perché ho visto che ci sono già abbastanza ff al riguardo e ho preferito concentrare la mia su qualcos'altro! 
Spero che vi stia piacendo la storia, se così fosse lasciatemi un commento e un voto. Ci vediamo al prossimo capitolo...


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