Capitolo 2

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Schivo gruppi di turisti a non finire. Gente con gli ombrelli per coprirsi dal sole, anche se il sole settembrino non è niente rispetto a quello dei mesi scorsi. Gente che sembra fatta con gli stampini, figli uguali ai genitori, e non dico solo per l'aspetto fisico. Camminano allo stesso modo, gesticolano allo stesso modo, non chiedono scusa allo stesso modo, se ti vengono addosso.

Mi perdo a osservare una ragazza dal rossetto rosso, col cappello di paglia a penzoloni, intenta a farsi fare delle foto su un ponte. Si mette in posa, chissà se si sente davvero bella o se è solo l'ennesimo scatto per un altro post modificato da mettere su Instagram.

Il ragazzo che gliele scatta da un cellulare enorme sembra avere almeno cinque anni in più di lei. Mi chiedo se siano fidanzati, non sembrano fratelli. Mi chiedo a che punto siano della loro vita, mi chiedo come mai siano venuti proprio a Venezia. Lei ha studiato? Lui ha una laurea? Lavorano, hanno figli, sono solo amici, magari con benefici?

Mi aggrappo al manico della borsa che mi pesa sulla spalla. Estraggo il cellulare dalla tasca sul retro dei jeans e avvio le mappe.

Ma i supermercati non esistono? Un qualsiasi negozio di alimentari, mica vive d'aria la gente. Sempre se ci vive ancora qualcuno qui... saranno mica tutti turisti in 'sto posto, no?

Scarto un uomo sulla cinquantina che si gusta un gelato proprio in mezzo al piccolo ponte di pietra che sto attraversando, mi scontro con un gruppetto di ragazzine che fa sponda da una parte all'altra, raccontandosi di un presunto bacio avvenuto proprio lì.

Un affollamento così non s'era mai visto.

I miei pensieri riprendono a scorrere, stizziti, stanchi. Li lascio andare, sono stufa di controllarli, non cerco più nemmeno un senso, tanto lo so che andrò avanti a pensar cazzate tutta sera. Mi perdo tra le calli, salgo mille ponti, non vedo più un'uscita da questo labirinto.

Finalmente, dopo aver svoltato in una via abbastanza ampia, arrivo a destinazione. mi accoglie cupa e mi risucchia al fresco della sua aria condizionata.

Dopo aver girato tra gli scaffali e aver racimolato tutto ciò di cui ho bisogno, mi metto in coda alla cassa. Cerco la mia posizione nuovamente sulle mappe del cellulare e strabuzzo gli occhi quando mi rendo conto di essere finita a Cannaregio.

«Mi scusi» accenno al cassiere, un tipo allampanato con un piercing al sopracciglio.

«Ma questa è Cannaregio?» faccio uno strano gesto con le mani, cercando di indicare lo spazio che mi circonda.

Questa non può essere Cannaregio.

Il tizio mi fa un sorriso sbilenco.

«Prima esperienza coi sestieri?» La sua voce nasale aumenta il mio nervosismo, l'accento veneziano mi irrita forse ancora di più.

«Ehm, sì.» Mi guardo attorno, la coppia di anziani dietro di me sembra scocciata dalla mia presenza.

«Abito a Dorsoduro» aggiungo, forse un po' imbarazzata.

«Studentessa universitaria?» prosegue il cassiere, poi passa svelto i prodotti sullo scanner. Mi limito a un cenno del capo per confermare, avrei fatto conversazione senza problemi se non mi fossi ritrovata a mezz'ora di distanza, se non di più, dal nuovo appartamento. Con tutta la roba che ho preso posso riempire tre sacchi di spesa. Da portare da sola, a piedi, fino al lato opposto di Venezia.

Brava, Elena, complimenti, davvero, dico a me stessa pagando.

Dopo essermi rifatta tutta la strada per tornare, con il peso delle borse, la batteria del cellulare scarica e la coda sfatta che mi lascia cadere i capelli in faccia, arrivo ai piedi del mio palazzo.

Stufa marcia, armeggio con le chiavi per aprire la porta d'ingresso.

Uno scatto dall'interno mi fa sussultare, la porta si spalanca lasciando uscire una figura parecchio più alta di me.

Il ragazzo si blocca, i capelli biondo scuro scompigliati e un viso a dir poco perfetto. Mi squadra intensamente dall'alto al basso, e io rimango impietrita, il cuore che inizia a galoppare. Mi sento nuda.

Raggiunge la sigaretta che tiene tra le labbra con le dita, alza un angolo della bocca in un sorriso che sembra tutto fuorché rassicurante, scavalca le borse della spesa che avevo lasciato accasciarsi per terra, e lo fa senza nessun riguardo. Non un saluto, non una domanda, non un aiuto.

Deglutisco, credo di essere arrossita.

Istintivamente arretro, abbozzo uno "Scusa" e continuo a fissarlo negli occhi chiari.

Lui avanza, mi sfiora la spalla con il braccio, e se ne va, portandosi dietro il suo profumo, incredibilmente affascinante, fresco e penetrante allo stesso tempo; un misto di fumo, mare e muschio.

Mi giro a guardarlo, la figura longilinea, i pantaloni che cadono dritti, un po' larghi sulle gambe, perfette quanto tutto il resto. La maglietta nera abbastanza attillata mette in evidenza i muscoli delle braccia.

«Certo che potevi anche aiutarmi» dico, non appena svolta l'angolo, dopo aver ricollegato il cervello. Mi sento in qualche modo a disagio.

Serro i denti, storco il naso, butto lo sguardo oltre la porta verde che il tizio ha lasciato aperta alle sue spalle. L'interno non è quello che mi aveva accolto in precedenza.

«Ma che...» Cerco il numero civico e noto un 32 sopra alla fila di campanelli.

«Ma perché non me ne va dritta una? Una! Dico, è mai possibile?» Raccolgo la mia roba sbuffando e mi rivolgo verso l'edificio che si innalza di fronte al civico 32.

Che figura di merda, penso mentre apro la mia porta d'ingresso.

Dopo una rampa di scale fatta trascinandomi dietro le borse della spesa, sento delle voci urlare. Non distinguo bene le parole, vengono dal piano superiore. Incuriosita, riprendo fiato e salgo la rampa successiva.

Pure il palazzo antico mi dovevo beccare, magari uno più recente avrebbe avuto un ascensore.

«Fatti i cazzi tuoi, Thomas, sempre dietro a rompere le palle sei!» Quando salgo sul pianerottolo, noto una porta mezza aperta, l'odore di erba che esce da lì è parecchio forte, e una ragazza dalla voce corposa continua a imprecare nei confronti di questo Thomas.

«Sei tu che non puoi farti le canne in stanza, prima o poi ci sbatteranno fuori tutti per colpa tua!» Il tizio si avvicina all'entrata, per spalancare la porta.

Non una mossa geniale, penso, immaginando l'odore che nel giro di qualche minuto sarebbe arrivato fino all'ingresso, al piano terra.

Quando mi nota, pianta i suoi occhioni castani nei miei ed esordisce con tono stranamente allegro: «Eccoti, finalmente. Serve una mano?» Mi rivolge un sorriso ingenuo, mi fa l'occhiolino e si porta il dito alla bocca facendo "Shh", mentre la ragazza alle sue spalle gira per la stanza urlando, la canna tra le mani e le finestre spalancate.

SOTTO LE PERSONEWhere stories live. Discover now