Capitolo 35

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Ryan recupera un pacchetto di sigarette, ne estrae una e se la porta alle labbra. Ritorna alla finestra, pensieroso, e io accolgo il suo silenzio. Osservo i vestiti che mettono in risalto la forma del suo corpo, la scarpa da ginnastica slacciata, la postura svogliata. Mi alzo, e lo raggiungo. Mi appoggio al muro vuoto, di fianco alla finestra, e mi perdo tra i suoi lineamenti, ritrovandomi a memorizzare ancora una volta ogni parte del suo profilo, scolpito a opera d'arte.

Mi lancia un'occhiata spenta, e corre di nuovo al riparo buttando lo sguardo al cielo, fuori, buio come un incubo. Tiene la sigaretta penzolante sulle labbra, la fossetta che si fa evidente sulla sua guancia, e nasconde le mani in tasca.

«Quindi credi che qualcuno abbia provocato l'incidente?» chiedo, il tono leggero, con la paura che se la prenda definitivamente con me per la mia mancata capacità di starmene al mio posto.

Sembra che non mi abbia sentito, tanta è la sua indifferenza. Apro la bocca in cerca di qualcosa da aggiungere, ma finalmente si smuove, scrolla le spalle, e dice: «Potrebbe essere, sì».

Ripenso alle parole del ragazzo stupendo che mi ritrovo di fronte, quando eravamo a casa sua, a Mestre, dopo la mia prima – e sono convinta ultima – festa.

«Devo rintracciare una persona.»

Ecco che cosa aveva urgenza di fare: capire chi ha causato l'incidente, chi ha provocato la morte dei suoi familiari.

È per questo che se ne va in giro a picchiare la gente?

«E avresti già un'idea di... di chi potrebbe...»

«Sì, Elena» sposta i suoi occhi su di me, e mi cedono le gambe a sentirlo pronunciare il mio nome.

Indaga il mio viso un paio di volte, analizza il mio corpo, e si gira completamente, così da ritrovarci faccia a faccia.

«Sei arrossita» mormora, schiudendo il suo perfetto sorriso da playboy.

«Non cambiare argomento» mi ritrovo pronta a rispondere.

Puoi farmi tutti i sorrisini che vuoi, io non cedo più. Incrocio le braccia al petto e ricambio il suo sguardo in modo molto più tagliente e incisivo.

«Chi credi che sia?»

«Davvero pensi che venga a dirlo a te, ragazzina? Ti ho già messa abbastanza in pericolo. Se quel coglione di stasera ti vede di nuovo...» sospira e ritorna ad affacciarsi alla finestra.

«Cosa? Abbi il coraggio almeno di finire le fra–»

«Vuoi che ti usi per ricattarmi, vuoi davvero farti usare così? Ti è andata bene che non ti ha mai visto prima. Se sa che non sei solo una delle tante siamo in guai seri» mi interrompe Ryan, alzando la voce. Si passa una mano tra i capelli, si rigira la sigaretta tra le dita, e poi se la rimette in bocca.

«Quindi prima...» mormoro, capendo il perché del suo definirmi praticamente una puttana di fronte al tizio con la barba.

«Sì» afferma lui, lasciando entrambi con il fiato sospeso.

Minuti che passano, sguardi che non si incrociano, tensione, tensione, tensione. Pian piano è solo questa che prevale su tutto. Prevale sul tempo che scorre, sul suo finto ignorarmi, sulle parole dette e non dette. Solo un'assurda tensione.

«Ryan» lo richiamo, mentre raccolgo tutto il coraggio che ho in corpo.

«Che cosa sono allora? Che cosa siamo? Che cos'è tutto questo?» La mia voce si spezza a ogni parola, a ogni sillaba, insicura, traballante, riflettendo come uno specchio ciò che sto provando ora. Abbasso lo sguardo, non appena Ryan riporta i suoi occhi su di me.

Si avvicina con la sua solita lentezza, adagia una mano sul mio viso, accarezzandomi dolcemente.

«Finché non risolvo i miei casini, non saremo niente. Probabilmente non saremo niente nemmeno dopo, perché non mi puoi aspettare tutta la vita.»

Mentre gioca con i miei capelli, sento gli occhi inumidirsi.

«Chi l'ha detto che bisogna aspettare? Non serve che risolvi...»

«Io. Io l'ho detto, e non può essere altrimenti.»

«Perché?»

«Sto cercando di proteggerti, piccola, perché non lo riesci a capire?»

«Non ho bisogno della tua protezione, ne ho passate tante, so badare a me stessa.»

«Ne hai passate troppe.»

Rimaniamo in silenzio, ma il mio cuore urla, urla e non capisco perché debba fare tante storie.

«Cosa ti aspettavi, Elena?» aggiunge poi.

Alle sue parole, mi stacco di colpo da lui.

Cosa mi aspettavo? Non lo so nemmeno io.

«Hai ragione» rilascio una risata isterica. «Hai ragione, noi non siamo niente. Dio, me lo ripeto sempre. Io manco ti conosco. Non ti conosco e sono qui a preoccuparmi per la tua cazzo di vita.»

«Non è questione di conoscermi, non è il tempo che fa la differenza, potevi conoscermi da anni, non avrei voluto lo stesso metterti in pericolo.»

«Guarda in faccia la realtà, Ryan. Nessuno potrà mai proteggermi. Non mi ha protetta nessuno, quando sono stata aggredita a quattordici anni. E non sono serviti incidenti, droga, pistole, è bastato che esistessi. Sapere, non sapere, essere in mezzo a rogne, o non esserlo, non fa alcuna differenza. Se ti vogliono stuprare, ti stuprano, se ti vogliono uccidere, ti uccidono. Puoi difenderti, okay, probabilmente essere un uomo ti aiuta all'ottanta per cento. Ma tutti finiscono nei guai, Ryan. L'assurdo? È che chi ci finisce per primo è sempre chi non dovrebbe finirci neanche per ultimo.»

Al mio sfogo, Ryan rimane con le labbra schiuse, l'espressione triste e dolorante, con un velo di consapevolezza a fasciargli gli occhi. Perché lo sa, che è così. Perché lo so, che la pensa esattamente come me.

Prendo fiato, deglutisco più volte, e cerco di calmare il cuore che mi sta esplodendo nel petto. Stringo i pugni, tento di scansare un altro attacco di panico, che so non ci mette molto ad arrivare una volta che apro la valvola dei ricordi.

Ryan riprende ad armeggiare con la sigaretta, cosa che mi fa innervosire parecchio, dato che sembra essere più importante del darmi una risposta.

«Hai intenzione di fumartela, quella cazzo di sigaretta?» sbotto a un tratto, imbarazzandomi per il mio tono e la parolaccia gratuita che ho usato.

«Vorrei, se avessi un cazzo di accendino» mi risponde a modo lui. Mi squadra di nuovo da capo a piedi, e non riesce a mascherare il desiderio che gli galleggia in quel mare di occhi che si ritrova. D'istinto, mi porto una mano alla tasca dei pantaloni. Ryan nota subito il mio gesto, e non si sforza di trattenere uno dei suoi sorrisi mozzafiato, soddisfatto di aver ottenuto quello che voleva: la mia completa attenzione, il discorso che stavamo facendo sviato, e il mio fottutissimo accendino.

Alzo le sopracciglia, raccogliendo la sfida: «Che c'è?»

«Hai l'accendino.»

«Chi ti dice che ce l'ho?»

«Te lo ripeto per l'ultima volta, non sono stupido, piccola.»

«Anche se ce l'avessi, non te lo darei.»

«Chi ti dice che non possa prendermelo da solo?» ribatte, accorciando pericolosamente le distanze.

Mi ritrovo incastrata tra lui e il muro, prendendomi a schiaffi nella mia testa, perché dentro di me so bene dove vanno a parare i suoi giochi, e so bene che non dovrei reagire alle sue provocazioni. Purtroppo, però, vince sempre quella parte di me che si lascia prendere dal momento, che si lascia incantare dai suoi movimenti, dal suo sorriso, dal suo profumo. Vince quella parte di me che, nonostante tutto, vuole Ryan più di ogni altra cosa al mondo.

SOTTO LE PERSONEWhere stories live. Discover now