Capitolo 15. Dalla tua parte.

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Grace.

Una settimana dopo

All'inizio, il trasferimento a Charlotte le era sembrato una buona idea. Anzi, no. Era stato proprio un sollievo. Una boccata d'ossigeno per il suo cuore ustionato dal dolore.

Una città come quella, con oltre 870mila abitanti, le avrebbe garantito l'anonimato. Avrebbe potuto persino piangere per strada senza che nessuno la riconoscesse, senza che nessuno le facesse domande imbarazzanti. Senza che nessuno recriminasse la sua famiglia per "colpe" che non aveva.

Ma i primi tempi erano passati in fretta. E con loro anche la disperata voglia di silenzio, di solitudine. In quel periodo, avrebbe voluto, forse per la prima volta in vita sua, qualcuno accanto a sé. Non per forza un fidanzato, le sarebbe bastata un'amica o anche solo una spalla su cui piangere, quando forzarsi per stare dentro a una finta normalità diventava impossibile.

Ma era stata troppo timida prima che quel terremoto di dolore le piovesse addosso, figurarsi come poteva essere dopo il trasloco in una città la cui enormità la faceva sentire protetta, ma anche infinitamente insignificante.

Erano stati giorni terribili, quelli. Giorni in cui non aveva fatto altro che danzare con i suoi sensi di colpa. Quelli dove c'erano domande che la scavavano dentro, fino a crearle buchi immensi tra lo stomaco e la gola. Togliendole prima la forza di mangiare, poi anche la volontà di respirare.

Non si era concessa di crollare, però. I suoi non avrebbero retto, lo sapeva. Non dopo tutto quello che li aveva travolti come una slavina.

Soffrire alla luce del sole era un lusso che non poteva permettersi. Perciò, si era lasciata scivolare in un grigiore in cui tutto si svolgeva sempre uguale, senza strappi, senza drammi, ma senza il calore e l'avventatezza che la sua gioventù avrebbero dovuto regalarle.

Alla fine, i suoi si erano preoccupati comunque. E il grigiore aveva subito uno smottamento: i suoi silenzi ingombranti erano diventati fiumi di parole che svuotava nello studio della sua psicoterapeuta. Non ci era andata volentieri, ma ci era andata. Ligia al suo dovere, continuava a tenere insieme i pezzi di quella famiglia spezzata dall'interno.

Era una vita che non ripensavo a queste cose. A questi dettagli che sembrano appartenere a qualcun altro.

Con il tempo, Grace aveva rinchiuso il suo dolore, i suoi fantasmi, il lento grigiore di quei primi tempi dentro una scatola dove non guardava mai. Vi aveva scavato dentro, quando, ai tempi dello Star, Rufus Rhodes le aveva chiesto di dare più rotondità ai suoi pezzi, di renderli più emotivi, in modo che i lettori potessero sentirsi parte integrante della storia che stava raccontando.

Ma scavare era un conto. Guardare in faccia i propri demoni era ben altra cosa.

Ed era quello che avrebbe voluto raccontare a sua zia, quando, con le palpebre che chiedevano pietà e i piedi straziati dalla stanchezza, era tornata a casa, lasciandosi finalmente alle spalle quella serata, l'odore acre dell'ospedale e quella strana sensazione nelle ossa.

Ma non ci era riuscita. Perché, in quella stanza, mentre credeva di raccogliere semplicemente del materiale per un'intervista, l'aveva visto.

Aveva visto l'abisso di dolore che giocava a nascondino dietro gli occhi scuri del suo capo, velati da segreti che il giovane Evans non era disposto a rivelare al grande pubblico, men che meno a lei, una sua dipendente certo, ma, di fatto, una perfetta sconosciuta.

Un abisso che le aveva aperto una voragine sotto i piedi e soprattutto nel petto. Perché mentre lui si sfogava con lei, raccontando - anche se a metà - un pezzo di un passato che, da sola, non sarebbe mai stata capace di immaginare per uno come lui, avrebbe voluto stringerlo. Avrebbe voluto dirgli che per quanto avesse sbagliato a fare a pugni, capiva che forse quel gesto era necessario se voleva mettere un punto a quella storia e andare avanti.

Avrebbe voluto dirgli, insomma, che era dalla sua parte.

Dalla tua parte. Una cosa che non era stata capace di dire a Emily.

Lei che ora aveva capito, aveva visto il dolore di un quasi sconosciuto, non era stata capace di vedere quello della persona che più amava al mondo.



Archie.

Merda. Ecco cosa conteneva il vaso di Pandora. Merda, merda e ancora merda. Solo gigantesca merda.

Certo, sua madre era stata comprensiva, gli aveva detto una cosa che non si sarebbe mai aspettato fosse capace di pronunciare: «Siamo dalla tua parte. Quello che hai fatto a Lulù è una cosa, ma quel Reynolds... che canaglia! Quasi mi dispiace che tu non gli abbia rotto il setto nasale.»

Ma, per quanto lo consolasse sapere che sua madre e la sua famiglia lo sostenessero in privato, la parte "migliore" di quella soap opera da quattro soldi, destinata a non finire mai, doveva ancora arrivare.

A forza di rincoglionirsi, tra inviti di matrimonio, sbronze e segretarie appiccicose, se ne era dimenticato.

L'anniversario, cazzo.

Il giornale, fondato da suo nonno, stava per compiere mezzo secolo esatto. Su quel punto, il vecchio Evans era stato irremovibile: avrebbero dovuto festeggiare i 50 anni nel mondo dell'informazione con un gran galà, invitando tutta la gente che contava nel settore e in tutto lo stato della Carolina.

Ma non era finita. Archie era disperato, ma non tanto per l'evento in sé.

Infatti, non solo avrebbe dovuto vestirsi come un dannato pinguino, non solo avrebbe dovuto stringere mani tutta la sera e fingere interesse per conversazioni inutili. No. Ora che i demoni erano stati sbattuti in prima pagina, ora che quella maledetta Pandora l'aveva convinto a rompere gli argini dei suoi silenzi, avrebbe dovuto fare i conti con la pazzia di sua madre, che, per salvare le apparenze del fantastico mondo dell'impero degli Evans, aveva deciso di invitare anche gli Stark alla festa.

Potrebbe esserci anche lei.

Lei che, dopo la notizia della rissa prima, e l'uscita dell'intervista, poi, non si era fatta viva. Se Archie fosse stato lucido, si sarebbe chiesto per quale motivo avrebbe dovuto farlo. Per dire cosa, poi? Per negare l'evidenza?

Ma non era lucido, almeno, non lo era abbastanza. Tutto quello a cui riusciva a pensare, era a sua madre e alla schizofrenia che, evidentemente, l'aveva spinta a compiere quel gesto.

Forse era un dispetto nei suoi confronti, o, forse, verso i Reynolds, che già si andavano vantando dell'unione del secolo tra Will e Lulù.

Non lo sapeva.

Non bastava costringermi a partecipare al matrimonio degli ex?

Forse se l'era meritato. Quella era la giusta punizione per aver messo, ancora una volta, tutta la sua famiglia in difficoltà, per averli esposto al ridicolo.

Forse era la punizione che si meritava per aver estromesso la sua amata Katie, che non gli rivolgeva la parola da una settimana.

Eppure, il suo cervello riproduceva in loop un solo pensiero, una sola scena: sua madre che, come Massimo Decimo Meridio nel film "Il gladiatore", se ne andava in giro urlando: al mio segnale scatenate l'inferno.

La fenice spezzataHikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin