Prologo

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Se c'era una cosa che Evan, nel corso del tempo, aveva imparato era proprio che non era mai una scelta saggia immischiarsi nelle faccende di cuore altrui.

A differenza di suo marito, Keith, che davanti al binomio di "amico e guai" pareva non essere in grado di farsi da parte, mai.

Proprio come in quell'occasione, e com'è che era finito per trascorrere una serata in casa di uno sconosciuto proprio non riusciva a ricordarlo. Non beveva mai troppo, Evan, a eccezione di un paio di birre ogni tanto, solo per accompagnare la pizza oppure al termine di una giornata particolarmente stressante.

Non era abituato neanche a bere in compagnia, perché se non gli andava, non gli andava. Inutile insistere. Keith era persino astemio, perciò, l'ultimo anno al fianco del marito non aveva avuto neanche occasioni di acquistare alcolici mentre facevano la spesa insieme, perché Keith non prendeva neanche in conto l'esistenza del reparto dedicato nel supermercato.

Forse era a causa di quell'abitudine persa nel tempo – non che gli mancasse o la rimpiangesse – oppure perché di birre ne aveva bevute troppe, la sera prima, tanto che, arrivato a un certo punto, ne aveva perso persino il conto.

E dire che Keith lavorava al Seraphim e lui bazzicava spesso nel locale gestito dal marito, dove non si faceva altro che bere e farsi intrattenere da aitanti giovani.

Eppure quella serata era arrivata del tutto inaspettata ed Evan si era trovato catapultato all'interno di una situazione, per lui, fuori dal comune.

Guardò l'orologio del cellulare, mentre i numeri parevano sdoppiarsi davanti ai suoi occhi, rimbalzare sullo schermo, giocare a rincorrersi senza che riuscisse ad afferrare il senso di ciò che stava vedendo.

"Tutta colpa di Keith" pensò, maledicendo il marito per quel suo spiccato istinto da mammina isterica. Se non avesse insistito tanto per convincerlo a passare una serata con gli amici, di certo non si sarebbe trovato in quella spiacevole situazione.

"Ma neanche la scena di un film di terza categoria" si disse con rammarico, fissando lo squallore che lo circondava.

Il divano su cui si era risvegliato era collocato al centro di una stanza su cui si affacciavano tre porte chiuse e da cui si intravedeva un'altra stanza, più piccola, le cui caratteristiche principali che risaltavano agli occhi gliela fecero classificare come "cucina". Altri due divani affiancavano quello in cui lui stava, più piccoli e stracolmi di vestiti apparentemente usati, cartoni di pizza dimenticati, lattine di birra e bibite gassate – la maggior parte, vuote. Un berretto rosso, una tracolla malandata, calzini e un paio di scarpe da tennis abbandonate davanti il mobiletto della televisione posto a ridosso del muro che si trovava di fronte a lui.

L'ultimo ricordo dai contorni chiari che possedeva risaliva al pomeriggio precedente, quando Keith lo aveva invitato al Seraphim, dove lui stesso si era recato in largo anticipo per sbrigare delle faccende burocratiche. Una volta arrivato lì, Evan aveva scoperto che una di quelle faccende era meno "burocratica" delle altre e che suo marito aveva rimesso in piedi la sua "agenzia matrimoniale", coinvolgendolo nelle scaramucce amorose dei loro amici.

Evan non avrebbe voluto cedere alle lusinghe del compagno, ai: -La tua sensibilità è unica / Tu sei la persona giusta / Sono certo che a te ascolteranno e tutto si risolverà- ma prima che potesse dire alcunché Isaac li aveva raggiunti con una faccia da funerale e l'uomo non era stato più in grado di tirarsi indietro.

"E poi?" si chiese Evan, mentre si portava una mano alla testa e socchiudeva gli occhi, tormentato da una pressante emicrania e una nauseabonda sensazione di acido attaccata alla bocca dello stomaco. Si alzò dal divano e tornò a guardarsi intorno. Si diresse in direzione della porta di fianco alla televisione e l'aprì, scoprendo che quello era l'ingresso dell'appartamento. Dava su un lungo corridoio silenzioso su cui si affacciavano le porte delle altre abitazioni e un paio di finestre incornicivano cartoline di una Los Angeles dal cielo stranamente grigiolino. Si avvicinò a una delle finestre e l'aspetto nebuloso e addormentato della città gli fece intuire che doveva essere mattina: un indizio più soddisfacente delle cifre incomprensibili dell'orologio del suo cellulare.

Non riconobbe subito la porzione di distretto su cui si affacciavano le finestre, quindi scartò in automatico le tre zone di Los Angeles che conosceva come le proprie tasche: Holmby Hills, dove abitava; Beverly Hills, che bazzicava continuamente, dato che lì si trovava il Seraphim, e non riconobbe neanche le strade deserte e l'aspetto selvatico e distante dall'edilizia utlramoderna di altre zone di L.A., elementi tipici di tutta quella parte della Contea nei pressi del Topanga State Park, dove aveva vissuto per anni prima di sposarsi e dove si trovava ancora la sua clinica veterinaria.

"Che giorno è, oggi?" si domandò, mentre pensava al proprio lavoro, chiedendosi se non fosse già in ritardo, se fosse di turno quel giorno, anche se non ricordava nemmeno quale giorno fosse, e tornò sui propri passi, verso l'interno dell'appartamento, richiudendosi la porta alle spalle.

Si accorse della finestra che si apriva sulla parete dietro i divani. Si avvicinò anche a quella, mentre gli occhi incominciavano ad abituarsi alla luce; scavalcò uno zaino dimenticato sul pavimento, un altro paio di scarpe e aprì i vetri, affacciandosi, e l'aria frizzantina di prima mattina lo investì in pieno, liberandogli il respiro, difatti sospirò con soddisfazione, incamerando quel fresco ancora non troppo alterato dallo smog del giorno e recuperò il proprio cellulare. Quella volta riuscì a scorgere l'ora: le sei e zero quattro.

Sollevò un sopracciglio stupito di essersi svegliato tanto presto dopo essersi sbronzato di brutto e, con il cervello meno annebbiato, si accorse dell'edificio che si erigeva alla sua sinistra: la Pelli Tower.

"Downtown" si disse e trasse un primo respiro di sollievo nell'essersi collocato in un punto preciso dello spazio. Riguardò il proprio cellulare, mentre richiudeva la finestra, "Meglio non chiamare ancora Keith" pensò, "Prima di vendicarmi facendogli prendere un colpo, devo capire che diavolo è successo ieri sera".

Era uscito con Isaac? Non lo ricordava, anche se si sentiva di dovere scartare quell'opzione: di certo Isaac non era stato dell'umore per una serata di baldoria, quindi doveva avere incontrato qualcun altro al Seraphim o fuori di lì, qualcuno che aveva finito per coinvolgerlo in quel casino.

Aggrottò la fronte e girovagò un po' per l'appartamento. Prese un bicchiere d'acqua in cucina, che bevve con avidità, e poi scoprì che dietro una delle due porte che ancora non aveva esplorato si trovava un bagno. Gli mancava una porta e chissà perché trovarsi davanti a quella gli fece correre un brivido di tensione lungo la schiena.

"Tipo film dell'orrore" e quelle poche parole tra i pensieri assunsero una sfumature strana, un filo inquietante, "Idiota" si ammonì Evan e scosse la testa, aprendo la porta di colpo.

-Era meglio il film dell'orrore- disse ad alta voce, mentre uno dei due uomini che si trovavano sul letto sfatto si alzava a sedere e lo fissava confuso. Poi quello fece vagare lo sguardo per la stanza, finché i suoi occhi non si posarono sul corpo nudo del giovane disteso al suo fianco, addormentato, che gli dava le spalle – sfoggiando il proprio fondoschiena nudo – e intento a russare lievemente.

-Cazzo- esclamò Lui con voce roca ed Evan percepì la pelle del viso tendersi sui muscoli del viso, mentre una rabbia cocente gli si accumulava nel petto, ed ebbe come la sensazione che quell'esclamazione fosse solo un eufemismo, neanche lontanamente in grado di dipingere chiari contorni del casino in cui si erano cacciati.

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