Capitolo 13

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Erano passati diversi giorni da quando Brice mi fece pensare al mio comportamento. Si... ero stato stupido a nasconderlo e le conseguenze delle mie azioni mi stavano facendo davvero male. Dovevo riparare al danno anche se ero convinto che non sarei riuscito a farmi perdonare.
Brice entrò nella stanza, faceva dei controlli ogni mezz'ora per poi andarsene. Probabilmente non voleva neanche rivolgermi la parola. Guardò la flebo, studiò alcuni sintomi, osservò se le pupille fossero reattive come sempre e controllò il brutto taglio che mi ero procurato... aprii bocca solo quando notai che tutta la sua attenzione ricadeva sulla ferita. «Mi spiace, ho deluso te e Shelley» dissi cercando di usare le parole giuste «Io ho...» la mia voce si incrinò «So di aver fatto qualcosa di stupido... Ho la tendenza a ferire chi mi è vicino...» sussurrai forse troppo forte. John non disse nulla e, mentre stava passando dell'acqua ossigenata sulla ferita, spinse un po' troppo. Tenni per me il leggero gemito che mi stava per scappare, e una volta bendata la ferita, se ne andò. Non mi aspettavo che restasse a sorvegliarmi ne che restasse solo per tenermi compagnia. Sapendo Brice come pensava, sarebbe stato capace di essere arrabbiato con me per settimane.
Mi rigirai stando faccia a faccia col muro. Anche da piccolo, stare sdraiato così mi dava un senso di protezione.
La stanchezza, che mai mi aveva abbandonato, era l'unica in quel momento che mi faceva compagnia. Almeno finché non entrò qualcuno dalla porta «Sammy?» una voce acuta e cauta echeggiò nella stanza «So che ti senti in colpa. Ma probabilmente avrei fatto lo stesso.» Mi girai osservando Shelley sedersi sul bordo del letto. «Quello che voglio dirti è che non dovresti flaggellarti se John non ti perdonerà subito... ok?» mi guardò. Non riuscivo a decifrare il suo sguardo. «Ha ragione ad essere arrabbiato e dovresti esserlo anche tu.»
«Sono arrabbiata ma so perché lo hai fatto.» Annuii per farle capire che avevo capito «Dov'è il ragazzo?» chiesi e Shelley non tardò a rispondere. «Quel giorno sei rimasto KO per un bel po', intanto il ragazzo si è svegliato e John ed io gli abbiamo parlato di quel che era successo. Poi John lo ha accompagnato in ospedale. Io sono rimasta qui con te anche sotto richiesta dell'omaccione. Aveva paura che se ti svegliavi ti saresti potuto togliere la flebo.» un piccolo sorriso divertito comparve sul suo viso. «Quindi eccoci qui.» Disse con un gesto teatrale che mi portò a sorridere, ma questo venne spazzato via da un pensiero negativo. «Ascolta Sam. Non sono nella testa di John ma so per certo che ti vuole bene. Anche ora. Magari sembra arrabbiato ma è solo il suo orgoglio che parla.» cercò di confortarmi posando una mano sulla mia.
«Mi sembra di commettere sempre gli stessi errori... non voglio che capiti di nuovo, non voglio svegliarmi a notte fonda avendo paura che qualcuno entri da quella porta urlandomi di scappare. Io non-» Mi bloccai con lo sguardo fisso su un punto indefinito della stanza. Avevo per caso... parlato ad alta voce? Ormai non importava più, dovevo liberarmi dai pesi che avevo dentro quindi mi costrinsi anche a liberare le emozioni che generalmente tenevo per me. Delle lacrime mi solcarono il viso contratto dalla preoccupazione e dalla tristezza.
Shelley strinse con più forza la mia mano per farmi capire che ci sarebbe sempre stata come spalla su cui piangere. Era strano per lei vedermi così, raramente mi vedeva piangere.
Con cautela scivolò sul letto per avvicinarsi a me e mi abbracciò. Nascosi il volto nell'incavo del suo collo mentre l'abbracciavo, la strinsi a me come per avere la sicurezza che non se ne sarebbe andata. «Va tutto bene Sam. Non ti abbandoneremo.» Mi accarezzò i capelli mentre cercavo di darmi un contegno.
Quelle carezze mi aiutarono a calmarmi e quando ci separammo Shelley mi prese la faccia tra le mani costringendomi a guardarla, le sue mani erano delicate e calde «Credo che dovresti parlare con lui. Confessare le tue preoccupazioni. Capirebbe.» sorrise dopodiché fece scontrare le nostre fronti e chiudemmo gli occhi. Era il nostro modo per dire "ti voglio bene". Sin da piccoli, in quel fatidico giorno in cui per pura fortuna entrambi avevamo marinato la scuola. Sperai che anche Shelley lo ricordava bene come lo ricordavo io.
In quel periodo mi trovavo a New York e, al tempo, vicino al Central Park c'era il collegio, fortunatamente negli anni avevano deciso che fosse una struttura a rischio e l'avevano buttata giù per costruirci edifici più sicuri e sicuramente più utili. La sera prima mi avevano strillato e castigato per la mia dichiarazione, e quando, il giorno dopo, mi lasciarono andare non persi altro tempo e scappai con un piano di fuga eccezionale. Mi rifugiai nell'enorme parco lì vicino e aspettai un qualsiasi segno. Qualcosa che mi portasse a continuare ad andare a quella scuola, o che al contrario mi convincesse a scappare il più lontano possibile.
Ed infine eccola. Una bambina dolcissima con i suoi capelli, un tempo, dorati e lunghi. Composta ma del tutto ribelle, con la sua divisa scolastica, che normalmente doveva essere grigia con gli orli rossi, era tutta colorata e disegnata. La gonna, anch'essa grigia, aveva gli orli strappati e vi si poteva leggere un messaggio, forse riferito ai compagni o forse ai professori: "Fuck you".
Quando la vidi la prima volta sentii che fosse il segno che aspettavo, ingenuo credevo che lei potesse darmi una risposta, ma mi diede qualcosa di meglio: una buona amicizia. Quella di cui avevo bisogno.
Indossava un cerchietto fucsia appariscente, per non far andare i capelli davanti agli occhi, per cui si vedeva bene il suo volto gentile e da dura al tempo stesso.
«Che ci fai qui ragazzino?» Mi chiese mettendo le mani sui fianchi. Sembrava davvero minacciosa ma con tutta la tranquillità del mondo le risposi «Sto fuggendo dalla mia vita. Tu? Non dovresti essere a scuola anche tu?»
«Beh potrei farti la stessa domanda.» con un saltello si sedette accanto a me sulla panchina. «Mi piace la tua giacca personalizzata.» dissi cambiando discorso. «Grazie... Come ti chiami?» «Sam» risposi subito. «Piacere Samantha. Ma stavo pensando di farmi chiamare in un altro modo.» disse tamburellandosi le labbra con un dito mentre guardava il cielo pensierosa. «E lo hai già trovato?»
«Fosse così facile...» ridacchiò guardando di nuovo me. «Allora Sam» continuò «scappi per una ragione o semplicemente perché ti va?»
«Sinceramente?» Chiesi e lei annuì «Per entrambi i motivi.» distolsi lo sguardo puntandolo sulla scuola da cui non volevo più tornare.
«Cielo... vieni dal collegio?» senza guardarla annuii rispondendo alla sua domanda. «Sai? Mi sembri un ragazzo simpatico.» disse dopo qualche istante di riflessione e ciò mi portò a guardarla. Sorrideva divertita ma non perché mi stesse prendendo in giro, perché vide la mia faccia sorpresa. Ebbene era la prima volta che sentivo qualcosa del genere. «Dovremmo avere un nostro messaggio segreto per poter dire qualcosa... come: "sono la tua roccia" oppure "ti voglio bene"!»era tutta gasata per aver stretto una nuova amicizia, anche se non ci conoscevamo ancora bene. «Non ho mai detto nulla del genere, ho sempre avuto un problema a dire ciò che provo.» dissi ma lei non si diede per vinta «Vorrà dire che lo diremo a gesti. Che ne dici questo» e mi prese la mano «per dire che ci saremo sempre per l'altro?»
Guardai le nostre mani che si tenevano con una presa salda. Mi dava sicurezza e conforto quindi annuii. «E se facessimo questo...» avvicinai la mia fronte e la poggiai sulla sua «per affermare il nostro legame di amicizia?»
«Intendi che questo vuole dire: "ti voglio bene"?» annuii e lei sorrise.
«Mi piace, come ti è venuta?»
Mi allontanai un poco e abbassai lo sguardo «Lo faceva spesso mio padre.»
«Dev'essere un genitore fantastico» enunciò ma la corressi subito «Era...»
«Mi dispiace...» si limitò a dire e mi prese la mano come poco prima. Quella stretta mi scaldò il cuore perché subito mi ricordai il significato di quel gesto.
Durante gli anni ci raccontammo tutto e ogni giorno alla stessa ora, salvo alcune eccezioni, ci incontravamo sulla stessa panchina per parlare, leggere, discutere e ridere insieme. Un giorno proprio mentre stavamo leggendo dei libri, ognuno per conto proprio, le scattò una molla che la fece esclamare: «So qual'è il nome!»
«Davvero?!» Chiesi sorpreso e lei tutta orgogliosa disse «Shelley!»
Mi piaceva e le donava quindi gli diedi tutto il mio appoggio.

Mi risvegliai dai ricordi quando Shelley si allontanò da me e si alzò dal letto per uscire dalla stanza. Improvvisamente sentii freddo, un gelo a cui non avevo fatto caso fino a quel momento. Subito mi chiesi se fosse stata sempre fredda o se fosse solo una mia parvenza per via della solitudine.
Ma quella stessa solitudine mi aiutò a pensare liberamente e meticolosamente su cosa dire a Brice.
Qualche minuto dopo mi alzai dal letto e mi portai la flebo a presso, dunque andai alla ricerca di Brice ma non durò molto dato che era seduto al tavolo dove solitamente pensavamo ai piani.
Mi avvicinai e quando mi vide si stava per alzare ma lo fermai sedendomi alla sedia accanto alla sua. «Dobbiamo parlare.» dissi ma subito, come se se lo fosse preparato, rispose secco «Non ho nulla da dire.»
Con altrettanta velocità risposi anch'io «Bene, vorrà dire che ascolterai.» non mi contrastò quindi continuai «Capisco perché sei arrabbiato e deluso, e comprendo perché tu non voglia più parlarmi o guardarmi in faccia. Ma Brice credimi quando ti dico che non avrei mai voluto ferirti.»
In risposta rise «Tu credi di sapere ma in realtà non sai nulla. Non hai capito che io non sono arrabbiato o deluso. Mi sento tradito da te. Hai preso la mia fiducia e l'hai gettata nel cesso.» era visibilmente irritato e anche dal tono si poteva capire quanto questo lo avesse ferito.
«Ok hai ragione, completamente ma lasciami spiegare. Io-»
«Vuoi propinarmi altre stronzate come: "non l'ho detto per non farvi preoccupare"? Oppure la mia preferita "non era un vostro problema"?» sarcastico ridacchiò. Mi sentii offeso perché erano le mie parole contro di me, ma questa volta alzai la voce senza mostrarmi arrabbiato, solo per farmi sentire. «Ascoltami!» si zittì per cui continuai «Non riesco a stare tranquillo un secondo per le mie preoccupazioni, non smetto di fare incubi perché sono bloccato nel passato, non dormo più di tre ore di seguito perché ho paura!» mi sfogai, buttai fuori tutto. Non mi importava quanto poi questo mi avrebbe reso miserabile ai suoi occhi. «Non ci riesco perché quella notte mi ha terrorizzato a morte. Temo che prima o poi qualcuno entrerà in quella stanza mentre dormo» indicai la mia stanza «e mi obblighi a lasciare questo posto con le persone che tengo nel cuore, solo per...» la testa mi girò «per...» una sensazione al naso mi portò a toccarlo. Sul dito vidi del sangue. Quando riuscii a realizzare sussurrai un'imprecazione mentre Brice mi spinse la testa indietro «Tienila così. Torno subito.»
«Mi gira la testa...» dissi chiudendo gli occhi. «Lo so» disse velocemente «non preoccuparti tra qualche minuto passerà.»
«Ehi Brice» lo chiamai mentre cercava delle garze nel kit per tamponare il sangue «Dimmi.» disse tornando da me con un pezzo di stoffa sterilizzata «Mi spiace davvero, e anche se non mi perdonerai sappi che per me sei e sarai sempre come un padre.» Mi guardò qualche secondo sorpreso poi si sbloccò e cercò di medicarmi.
«Ho studiato il tuo caso, ma per esserne certi dovrei farti fare delle analisi più approfondite.»
«Questo vuol dire...» non mi fece finire che completò lui la frase «Ospedale. Lo so come la pensi ma è l'unico modo per capirne di più.»
Quando ebbe finito riabbassai il mento lentamente per paura che un movimento troppo rapido facesse tornare il giramento di testa. Riflettei su quanto detto, sulle scuse che proposi neanche due minuti prima, quindi lo guardai e annuii delicatamente «D'accordo Doc, seguirò le tue istruzioni senza fare obiezioni.»

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