QUARANTAQUATTRO

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Non partecipava a una riunione di famiglia da mesi, anni.
Forse non aveva mai partecipato a nessuna riunione di famiglia – o meglio, a nessuna che vedesse coinvolti i suoi genitori contemporaneamente.

Genitori.
Genitori.
Genitori.

Non adottivi. I suoi veri genitori.

Che poi erano gli stessi che lo avevano cresciuto, gli stessi di cui si era innamorato, gli stessi a cui aveva sempre voluto bene.
Gli stessi che gli avevano causato una precoce gastrite cronica adolescenziale e un desiderio spasmodico di fuggire il più lontano possibile da loro.
Si era limitato a cambiare cognome. Abitava nello stesso appartamento in cui era cresciuto. E si trovava nella stessa cucina in cui Gesche era stata solita riunire tutti i "cuccioli" del Clan per tenere le sue lezioni di storia – tra una fetta di torta e qualche biscotto.
Niente dolci quel giorno, però. E Abel era certo che neanche avrebbe avuto voglia di mangiarne, se ce ne fossero stati. E non c'erano "cuccioli" in giro, anzi: era circondato da una comitiva che pareva venire fuori direttamente da qualche film i cui protagonisti erano dei gangster.

Saul era il gangster numero uno. Il più spaventoso – ovviamente.

Accanto a lui sedeva Hauke. Il volto pallido, le spalle curve, una sigaretta gli pendeva dalle labbra, spenta. 

Telsa sfoggiava un'espressione tra il sono-appena-sopravvissuta-a-un'apocalisse-zombie-e-ancora-non-ci-credo e un non-rompetemi-i-coglioni. Ancora lorda di fuliggine e terriccio – si era lavata soltanto il viso – e i capelli biondi ridotti un disastro.

Eppure, lui aveva deciso. Aveva deciso di porre fine al dolore che quella situazione – la sua famiglia – gli procurava da sempre.
Doveva soltanto trovare il coraggio per tirare tutto fuori, senza farsi distrarre – anche se, l'unica distrazione che catturava i suoi pensieri, in quel momento, portava il nome di Reik.

Picchettò la tazza che stringeva tra le mani con le unghie, fece una smorfia, bevve un sorso di caffè.
Odiava trovarsi lì.
Odiava non essere in ospedale, non potersi accertare in prima persona come stava procedendo l'operazione a cui stavano sottoponendo Reik.
Sì, operazione. Ospedale.
Perché John aveva insistito e aveva strappato il suo collega dal covo della Regina Lamia, con l'intenzione di provare a salvarlo tramite la medicina vera – come lui stesso l'aveva definita. L'aveva portato in una struttura privata, però, dove tra il personale medico c'erano diversi suoi amici.
Dubitava, quindi, che John stesse sbraitando come avrebbe fatto lui.
Dubitava che stesse minacciando di morte a sufficienza l'équipe medica, che aveva preso in custodia il suo amante, al fine di spronarla a dare il meglio di sé.
Dubitava fortemente che stesse facendo abbastanza casino – come avrebbe fatto lui – tanto da distrarre l'intero ospedale – e quello lo rincuorava.
Forse i medici non avrebbero perso tempo a legare l'ispettore a una sedia e neanche a tappargli la bocca – come avrebbero dovuto fare con lui – e si sarebbero potuti concentrare il più possibile per salvare la vita di Reik.

Bevve un altro sorso di caffè e nel suo campo visivo entrò una delle mani di Gesche, che andò a poggiarsi con delicatezza sopra una delle sue. Se la scrollò di dosso malamente e bevve ancora un po' di caffè.

-Sei ancora arrabbiato con me?- chiese sua madre e lui decise che non avrebbe fornito una risposta a una domanda tanto stupida.

Era ovvio, scontato, che fosse arrabbiato con lei.
Con Saul.
Con Ada – che era sparita dalla circolazione.
Con Hauke.
Gli unici per cui non provava troppo risentimento erano Telsa e Rudi. Suo fratello gli rammentò proprio in quel momento di essere anche lui lì con loro, poggiando la testa sulla sua spalla destra, aggrappandosi al braccio dello stesso lato. Avrebbe voluto scrollarselo di dosso, ma aveva appena deciso che con lui non era arrabbiato, perciò si limitò a bere un altro sorso di caffè.

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