ℂ𝕒𝕡𝕚𝕥𝕠𝕝𝕠 12

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Scandito dal ticchettìo di qualche goccia di pioggia passeggera che rendeva l'aria ancor più umida e calda, ogni secondo che passava andava a comporre una linea temporale distorta: quel maledetto giorno pareva non avere più fine.
Dopo aver assicurato Conrad alla sua sedia a rotelle tramite l'apposita cinghia e aver avviato la pompa destinata alla sua alimentazione, la ragazza si era riservata un po' di tempo da trascorrere in solitudine nella sua stanza, per tentare di mettersi in contatto con Dave. Il suo cellulare squillò più volte ma non le rispose mai, poiché puntualmente rifiutava il suo tentativo di mettersi in contatto premendo il tasto rosso; se era stato così codardo da scaricarla con uno stupido messaggio, non la stupiva granché il fatto che adesso non avesse il coraggio di parlarle.
Strinse i pugni, lasciando cadere il cellulare sul cuscino.
Era terribilmente arrabbiata, ma anche altrettanto divorata dallo sconforto. Avrebbe potuto accettare, in qualche modo, la volontà di Dave di porre fine al loro rapporto, ma credeva di meritare almeno una spiegazione.
Le successive ore che fu costretta a trascorrere all'interno di casa Page sembrarono scorrere con una lentezza snervante, quasi come se le lancette dell'orologio appeso sul frigorifero avessero rallentato il loro movimento. Nonostante alcuni tentativi non riuscì più a comunicare con Conrad e così si ritrovò a ciondolare da una stanza all'altra per tutto il giorno, aspettando speranzosa di ricevere buone notizie riguardo allo stato di salute di Milena, e dunque di poter finalmente terminare il lunghissimo turno di lavoro; tuttavia, quando alle 21 mise il ragazzo a letto, nessuno aveva avuto la decenza di farsi sentire.
Catherine si sentiva irrequieta. Quella sarebbe stata la prima notte che avrebbe trascorso in quella casa da sola con Conrad. Ricadeva su di lei una responsabilità davvero grande, sapeva bene che non avrebbe potuto concedersi alcuna indecisione, ma il solo pensiero per lei diventava pressante come un macigno sullo stomaco; oltre a questo, stava morendo di fame.
Decise di sgattaiolare in cucina e, sperando di trovare qualcosa da mettere sotto ai denti, iniziò a frugare nella dispensa cercando della focaccia o del pane per prepararsi un pasto veloce, ma quando aprì lo sportello del frigo un violento conato di vomito fece svanire in un istante il suo appetito: distese sui ripiani superiori vi erano alcune parti della lepre, che parevano essere state gettate all'interno del frigorifero senza alcuna premura. Alcune strisce di sangue, ormai completamente rappreso, scendevano giù dalle pareti interne per poi venire raccolte sul fondo.
Un secondo conato costrinse la ragazza a portarti entrambe le mani alla bocca, richiudendo lo sportello con una spallata; quale pazzo conserva la carne in quel modo orripilante?
Scosse la testa, cercando di spostare la sua attenzione altrove; si promise che l'indomani avrebbe ripulito quel disastro, ma in quel momento era davvero troppo stanca per gettarsi in un'impresa simile. Dopo aver controllato Conrad per l'ultima volta, assicurandosi che stesse dormendo tranquillo nel suo letto, decise di coricarsi e concedersi almeno un paio d'ore di sonno, impostando una sveglia per essere sicura di non perdere la cognizione del tempo. Quindi si infilò il pigiama, collegò il cellulare alla presa elettrica e si distese, scegliendo di lasciare accesa l'abat jour sul comodino per non restare completamente al buio.
Era stata una giornata davvero estenuante, sia psicologicamente che fisicamente.
Tutto ciò che desiderava adesso era trovare un po' di pace.
E ci riuscì.
Un breve acquazzone estivo si riversò sulla città quella notte, riempiendo il silenzio che aleggiava all'interno della casa con il suo rassicurante fracasso. Ogni cosa pareva essere al suo posto e Catherine, con il corpo aggrovigliato alle lenzuola e il volto affondato nel cuscino di piume d'oca, era riuscita a trovare la quiete di cui aveva bisogno per recuperare le energie; respirava lentamente, alzando e abbassando il petto, con un ciuffo si capelli neri a sfiorare le labbra socchiuse.
Nel cuore di quella notte, tuttavia, un rumore improvviso strappò la ragazza dal mondo dei sogni riportandola violentemente alla realtà. Una serie di colpi, intensi e insistenti, seguiti dal suono del campanello: c'era qualcuno alla porta.
La ragazza rizzò la schiena di scatto, con il fiato sospeso restò in ascolto: per una breve manciata di secondi tornò il silenzio, ma il suo cuore mancò un battito quando sentì un nuovo tonfo provenire dall'ingresso. Si alzò in piedi, sfiorando lo schermo del suo cellulare ma solo per apprendere che era l'una e quaranta. Chi mai poteva bussare alla porta nel cuore della notte, perlopiù in modo così insistente?
Con passi lenti e insicuri Catherine abbandonò la sua camera addentrandosi nel corridoio avvolto da un'oscurità quasi impenetrabile; scelse volontariamente di non accendere le luci, almeno fino a che non avesse visto chi c'era fuori ad attendere sul vano scale. In questo modo, la situazione le fosse sembrata troppo strana, avrebbe potuto semplicemente fingere di non essere in casa.
Avvicinandosi alla porta ancora chiusa a chiave spinse lentamente il coperchio dello spioncino, per poi avvicinarvi il viso molto lentamente; quello che si trovò davanti, tuttavia, fu nient'altro che una parete spoglia.  Provò a spostare lo sguardo lungo la porzione di scale che riusciva a raggiungere, ma di nuovo non riuscì a vedere nessuno; eppure le luci all'esterno erano state accese.
Con il battito accelerato poggiò delicatamente una mano sulla superficie della porta, deglutendo a vuoto. "Ma che diavolo succede in questa maledetta casa?" pensò, affogando i polmoni in una poderosa boccata d'ossigeno. Si ritrasse, pensando brevemente a cosa fare; le sue gambe avevano iniziato a tremare.
-C'è... C'è qualcuno?- balbettò, in preda al panico.
Dall'altro lato della porta chiusa una voce maschile, roca e profonda, si udì poco dopo rimbalzare sulle pareti spoglie del vano scale. -Chi sei tu? Dov'è Milena?-.
Catherine tornò ad avvicinare il volto allo spioncino e questa volta vide un individuo dall'aspetto poco rassicurante che se ne stava in piedi, con le braccia puntate sui fianchi, proprio davanti alla porta. Si trattava di un uomo adulto, forse sulla cinquantina, che per qualche motivo indossava una tuta blu che ricordava quelle utilizzate dai carpentieri; era stempiato, portava una capigliatura poco curata e una barba incolta parzialmente sbiancata dall'età.
-La signora Milena non è in casa- rispose prontamente la ragazza, cercando di risultare molto più sicura di quanto non fosse. -Mi dispiace-.
-Ma non dire stronzate!- ghignò lo sconosciuto, sbattendo un pugno contro la parete tanto forte da farla vibrare. -Apri la porta-.
Catherine indietreggiò di un passo, intimorita da quella violenta reazione; adesso non aveva più alcun dubbio, non avrebbe mai e poi mai aperto quella dannata porta. -Chi... Chi è lei?- borbottò, annaspando vistosamente. -Non sono autorizzata a far entrare nessuno-.
Un attimo di silenzio precedette la risposta dell'uomo, che iniziò a imprecare così forte da causarle un brivido lungo la schiena. -Apri questa cazzo di porta, puttana! Dov'è Milena?-. Iniziò a sbattere entrambi i pugni contro alla superficie di legno, generando un baccano che probabilmente avrebbe allertato l'intero condominio. -Apri!- continuava a gridare.
Catherine si allontanò di un passo, afferrando qualsiasi cosa le capitasse tra le mani per creare una barriera che avrebbe impedito a quel folle di danneggiare la serratura. Poggiò contro alla porta una sedia, incastrando lo schienale contro alla maniglia, poi aggiunse un vecchio baule che fece scivolare sul pavimento a fatica; si era sostanzialmente barricata in casa, ma continuava a sentirsi in serio pericolo.
Estenuata si lasciò cadere a terra con le ginocchia sul pavimento freddo, premendo i palmi contro alle orecchie nel disperato tentativo di non sentire più le grida dell'uomo. Scoppiò in un pianto nevrotico, pregando silenziosamente chiunque potesse sentirla di far andare via quel folle, ma per molti minuti non ebbe più il coraggio di aprire gli occhi e sollevare il capo; il terrore la immobilizzava a terra, come se il suo corpo fosse diventato di pietra.
Difficile dire quanto tempo Catherine avesse trascorso rannicchiata sul pavimento, ma quando finalmente abbassò le mani e tornò in ascolto, si ritrovò nuovamente intrappolata in quella casa avvolta dal silenzio più totale e da un'oscurità opprimente. Lo sconosciuto pareva aver rinunciato, almeno per il momento, ma già sapeva che le sarebbe stato impossibile chiudere occhio per tutto il resto della nottata.

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