ℂ𝕒𝕡𝕚𝕥𝕠𝕝𝕠 30

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Catherine tornò a casa con il sorriso dipinto sulle labbra, ma le mani strette in due pugni tremanti. Entrare in contatto con Conrad in modo così profondo non era mai stato nei suoi piani, fin dal principio lui sarebbe dovuto essere semplicemente la persona alla quale avrebbe dovuto prestare cure e attenzioni in cambio di denaro; niente di più, niente di meno. E ci aveva provato a mantenere le distanze, ma qualcosa nella personalità di quel ragazzo l'aveva attratta al punto da abbattere ogni sorta di barriera che avesse provato a innalzare.
Ormai era troppo tardi per tornare indietro. Ma forse, pensò, era meglio così.
Non aveva alcun dubbio di provare nei suoi confronti un affetto sincero, non si trattava di un modo per dimenticarsi della sua storia con Dave; non avrebbe mai potuto sostituire una persona con un'altra come si fa con gli oggetti.
Ogni altra cosa in quel momento sembrava essere passata in secondo piano, tutto ciò che desiderava era trovare un modo per curare il dolore che attanagliava l'anima di quel ragazzo, donargli il conforto di cui aveva bisogno per sentirsi meglio; nonostante ciò, Catherine conscia del fatto che niente avrebbe mai potuto restituirgli una vita normale. Conrad era ferito nel profondo dall'assenza inevitabile di suo fratello, dal senso di colpa per non aver in alcun modo impedito ciò che gli era accaduto, da tutti quegli anni vissuti in un letto tra le grinfie di una donna possessiva e manipolatrice; come se non bastasse il suo corpo era danneggiato in modo irreversibile, nessun medico che lo avesse visitato aveva mai considerato la possibilità che sarebbe un giorno potuto tornare a camminare.
Si chiedeva in che modo avrebbe mai potuto compensare tutte queste mancanze.
Rientrando a casa quel giorno la ragazza si ritrovò a pensare a lungo, tanto da mancare la fermata dell'autobus e trovarsi costretta a farsi una lunga camminata a piedi per tornare indietro; si sentiva stravolta da sentimenti nascenti che la scuotevano come fa il vento con una bandiera, ma allo stesso tempo completamente svuotata.
Ripensò ancora e ancora al bagliore di vita che aveva intravisto negli occhi del ragazzo, al calore delle sue labbra e al dolce fruscio del suo respiro; non sapeva che cosa sarebbe accaduto alla sua vita da quel momento in poi, ma era assolutamente certa di desiderare che Conrad ne facesse parte.
Nel silenzio del suo appartamento si preparò frettolosamente un pranzo freddo, per poi infilarsi a letto; non che fosse realmente stanca, ma in qualche modo sentiva la necessità di trovare un po' di pace raggomitolandosi tra le lenzuola pulite. Fece un pisolino e poi, notificando che era ormai giunto il tardo pomeriggio, decise di concedersi una bella doccia; l'acqua fresca sembrò allontanare almeno temporaneamente i cattivi pensieri che annebbiavano la sua mente, facendo tornare il sereno. Tuttavia, mentre era intenta a fissare il vetro ricolmo di goccioline trasparenti, la suoneria del suo cellulare la fece sobbalzare riportandola in un attimo al presente. Avvolgendo un asciugamano pulito attorno al suo corpo uscì dal bagno e correndo raggiunse il salotto, dove aveva riposto lo smartphone sopra al tavolo, proprio accanto a un posacenere ricolmo di mozziconi di sigaretta.
A chiamarla era un numero fisso, che non ricordava di aver mai visto prima.
-Pronto?- mugolò, intenta ad annodare l'asciugamano per impedirgli di scivolare via.
-Salve, la contatto dalla struttura residenziale di Ontages, mi scuso per il disturbo- recitò una voce femminile dall'alto capo della linea. -Parlo con Catherine?-.
La ragazza deglutí a vuoto e per un attimo temette il peggio: aveva lasciato la struttura solo poche ore prima, per quale motivo la stavano contattando? Il suo primo pensiero, ovviamente, fu quello che fosse accaduto qualcosa di brutto dopo il suo rientro a casa.
-Sì, sono io- rispose, con evidente titubanza. -Cosa succede?-.
-Il nostro paziente, Conrad Page, ci ha chiesto di contattarla perché vorrebbe parlare con lei- rispose l'infermiera. -È possibile?-.
In quel momento Catherine si sentì pervasa da una sensazione di enorme sollievo, concedendosi un pesante sospiro. Era felice che il suo brutto presentimento fosse stato appena smentitom -Ma certo- borbottò, sollevando il capo con un sorriso nervoso. -Certo, sì- ripeté.
Attraverso il microfono udì alcuni rumori ovattati mentre la cornetta veniva passata dall'infermiera all'orecchio del paziente; tuttavia, subito dopo, la conversazione telefonica fu avvolta da un silenzio innaturale.
Catherine attese per una lunga manciata di secondi di udire la voce dell'altro, con lo fonte aggrottata e il fiato sospeso. Dall'altro capo della linea, tuttavia, proveniva nient'altro che un silenzio tombale.
-Conrad? Ci sei?- esclamò lei, confusa.
Fu per un sollievo udire finalmente la voce del ragazzo, che per qualche motivo le parve molto più spenta del solito. -Sì. Volevo...- borbottò, per poi tacere ancora.
La mora strinse il cellulare tra le dita, venendo nuovamente scossa da una sensazione profondamente negativa. Non riusciva a capire cosa stesse accadendo, ma percepiva qualcosa di strano. -Va tutto bene?- chiese istintivamente, senza riuscire a impedire alla sua voce di tremare sensibilmente; teneva il cellulare premuto sull'orecchio con molta più forza di quanta fosse stata effettivamente necessaria.
Dall'altro capo della linea Conrad restò in silenzio ancora un po', prima di tornare a parlare. -Volevo sentirti- spiegò, continuando a mantenere un tono di voce così basso che era difficile da distinguere attraverso la linea telefonica.
Scoppiando in una breve risata carica di nervosismo, l'altra tentò di sciogliere la tensione che si era creata tra loro. -Non dirmi che ti manco già- ridacchiò. -Ti prometto che domani tornerò a trovarti, ok?- mugolò, appoggiandosi con la schiena contro al muro e affondando una mano tra i capelli scuri ancora bagnati.
-..Ok- recitò la voce del biondo, ora ridotta a un sibilo appena percettibile. -Sono contento-.
Qualcosa non andava, e Catherine non ebbe bisogno di fare appello al suo istinto per comprenderlo. Ormai conosceva quel ragazzo abbastanza bene da riuscire a comprendere quando il suo stato d'animo veniva compromesso im qualche modo; riusciva a leggere chiaramente della tristezza nel suo modo di parlare.
-Ma sei... Sei sicuro di stare bene?- gli chiese ancora, annaspando. In realtà non aveva bisogno di udire alcuna risposta, era praticamente certa che il ragazzo stesse tentando di dirle qualcosa senza riuscirci.
Ingoiando tutto il suo dolore come era abituato a fare, tuttavia, lui non esitò a rassicurarla. -Sì, tranquilla. Sono... Sono felice di poter parlare con te. Stammi bene-.
-Aspetta, Conrad!- esclamò Catherine quasi gridando; ma il suo interlocutore, solo un attimo dopo, aveva già interrotto la comunicazione riagganciando bruscamente.
Per diversi minuti Catherine restò immobile con il cellulare ancora stretto in pugno, cercando di dare un significato a ciò che era appena accaduto. Quella telefonata le era sembrata fin troppo stana e le aveva destato non poca preoccupazione: le era sembrato quasi che il lui fosse in procinto di mettersi a piangere, che l'avesse chiamata per dirle qualcosa senza trovare il coraggio di farlo per davvero.
In seguito tentò di rimettersi in contatto con la struttura chiedendo di poter parlare ancora con Conrad, ma fu rassicurata da un'infermiera del fatto che lui stesse bene e che avrebbe potuto incontrarlo ancora il giorno successivo, se avesse voluto.
Catherine si sentì sollevata dal fatto che il ragazzo si trovasse in un lungo sicuro in cui aveva a disposizione tutto ciò di cui aveva bisogno, sapeva bene che quella era la situazione migliore in cui si potesse trovare adesso; nonostante questo, aveva la netta sensazione che lui in realtà avrebbe semplicemente voluto fuggire da quel posto.
Quella notte fece molta fatica a riposare, ogni volta che chiudeva gli occhi la sua mente riprendeva a divagare impedendole di distendere i nervi tesi: continuava a domandarsi per quale motivo Conrad le avesse fatto quella telefonata, per poi non dirle praticamente nulla.
Sospirò, cambiando posizione per l'ennesima volta.
Forse lui aveva soltanto bisogno di tempo per abituarsi a quell'ambiente niovo; dopotutto, aveva letteralmente trascorso gli ultimi anni della sua vita chiuso in una sola stanza, senza mai più metter piede all'esterno. Trovarsi a vivere in quella struttura, adesso, doveva essere stato un cambiamento piuttosto sconvolgente al quale avrebbe dovuto abituarsi un passo alla volta.

CatatonìaWaar verhalen tot leven komen. Ontdek het nu