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Passare dal caldo giornaliero di Hauntown al freddo e all'umidità di Forks è stato parecchio traumatico. Non come rivedere mio padre, certo, ma non è stato per nulla piacevole lo stesso.
Non appena sono scesa dall'auto, ho subito riconosciuto il freddo pungente sulle mie guance. La città della mia infanzia, dove sono cresciuta. Sono risaliti alla memoria tantissimi ricordi. La lana pungente dei maglioni sulle braccia abituate a essere scoperte, le dita delle mani stritolate dai guanti.

Non appena sono scesa dall'auto, ho anche capito che questo posto non mi era mancato per niente. È strano come abbia sognato Forks e il mio ritorno fino all'altro giorno, sentendo anche un pizzico di nostalgia, ma ora che mi ci ritrovo per davvero sento già la mancanza di Hauntown.
Almeno qui non rischio la vita, ma il cielo è così scuro e tetro che mi sento già senza energie.

Mamma mi fa entrare in casa, e mi accorgo che tutto è rimasto uguale a mesi fa. L'odore di una torta al formaggio, il piatto che ama preparare mia madre convinta che mi piaccia ancora come quando ero bambina, mi si infila nelle narici. Sorrido all'immagine di mia sorella ai fornelli, intenta a sorprendermi con una torta di bentornato.

«Bentornata a casa» dice mamma. «Papà non c'è, è dovuto andare a un'importante riunione.»

«Immagino che questa riunione durerà tutta la settimana» ribatto.

«Coraggio, Meme, non fare così.»

Meme è il nomignolo che mi è stato affibbiato quando ancora ero una bambina. È stata mamma a benedirmi in questo modo, solo perché è la parte finale del mio nome e perché, quando desideravo qualcosa con tutta me stessa e mi mettevo a fare i capricci, ripetevo sempre: «Me me vuole questo.»
È una cosa talmente stupida da avermi fatto odiare questo soprannome, ma non ho via di scampo. Mamma adora chiamarmi così, e anche Jennifer. Mi ricorda troppo la marca di una caramella rossa che nessuno vuole, di quelle scadenti.

«Non dire così» mi ripete sempre Jenn. «Ogni volta che qualcuno ha delle caramelle, le prime che mangia e finisce sono sempre quelle rosse.»

Vado in camera mia. Tutto è come l'ho lasciato l'ultima volta che ci ho messo piede: le pareti giallo canarino sono ancora decorate dalle foto dei miei amici del liceo e da qualche poster con animali. Il letto è sfatto e il mio adorato aggeggio è ancora al suo posto sulla scrivania. Si tratta di un computer, più simile a un vecchio scatolone, che mi regalò mio zio. È talmente vecchio da essere quasi inutilizzabile. Se lo si portasse da un tecnico probabilmente suggerirebbe di buttarlo via.

Mi siedo sulla sedia girevole rossa e lo accendo. Sapendo che ci impiega almeno cinque minuti ad avviarsi, scendo al piano di sotto per mangiare qualcosa e saluto mia sorella, che sta aspettando che il timer del forno suoni. «Abbiamo già aperto i regali di Natale, ma ce n'è uno per te.» Mi passa un pacchetto piccolo e allungato. «Da parte mia e della mamma.»

La abbraccio. «Grazie mille.»

Con un bicchiere di latte e dei cereali torno di sopra, dove trovo il computer acceso. Metto da parte il biglietto e il regalo e mi concentro sul computer, con il quale vado nella casella delle mail.
Trovo finalmente quella che credevo fosse da parte della Haldell e mi sento un'idiota per averci creduto. Era solo una strategia dell'assassino. Astuto e intelligente. Mi chiedo ancora come abbia fatto ad avere la mia mail, o anche solo a modificare i registri della Haldell.

«Aimee?» urla mia madre dal piano di sotto.

Sospiro, rivivendo nella mente l'ennesimo ricordo.

Era primavera quando adottammo una gatta randagia, Molly. Me ne prendevo cura ogni giorno, soprattutto quando ero a casa da sola. Era la mia compagna d'avventure e qualche volta mi lamentavo con lei anche dei miei problemi. Mi ascoltava in silenzio e non si lamentava – non che potesse farlo, ovviamente – ma era la cosa più vicina a una migliore amica che avessi.

Finché un giorno non sentii mia madre urlare il mio nome dal piano di sotto. Quando scesi, mi disse che mio padre aveva dato in adozione Molly e che non sarebbe più tornata. A quanto pare dopo mesi aveva scoperto di essere allergico. Fu traumatico, in pochi secondi avevo visto la mia unica gioia svanire nel nulla. Fu solo la prima azione che fece mio padre per rovinarmi l'adolescenza, che fece solo per il gusto di farla.

«Scendi, è arrivato papà!»
Alzo gli occhi al cielo. Evviva. «Arrivo subito!»

Quando scendo trovo mio padre vestito elegante. Con i capelli castani e la carnagione diafana, non posso negare che si tratti di un bell'uomo e non mi meraviglio che abbia catturato l'interesse di mia madre. Ciò che continuo a chiedermi è come sia riuscita ad andare oltre al suo carattere burbero e freddo, quando lei è una donna dal cuore grande e gentile.

«Ciao, papà» borbotto.

Ricambia il saluto con un cenno del capo.

Quando Jennifer esce dalla cucina e corre verso di lui per abbracciarlo, sento qualcosa dentro di me spezzarsi. Da bambina non mi ha mai portata sulle spalle, non abbiamo mai condiviso momenti felici e non abbiamo mai passato giornate padre-figlia. Vederlo così con Jennifer mi fa provare un odioso sentimento di gelosia e tristezza, perché lei sta avendo tutto ciò che lui non ha mai dato a me. Amore, affetto e calore.

«Ho molto lavoro da fare, perciò andrò nel mio ufficio. Non disturbatemi, per favore» dice, sciogliendo l'abbraccio con mia sorella.
«Certo, papà. Non vorrei mai disturbarti» affermo.
«Sarà meglio per te» mi rimprovera.

Sospiro: sarà una lunghissima vacanza.

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