19.

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«Facciamo un gioco» proposi, prima che la piccola cabina ripiombasse nel silenzio. Il ragazzo alzò lo sguardo verso di me, se l'aveva fatto significava che mi riteneva degna di attenzione, me o la mia proposta, almeno, quindi continuai.
Subito mi lanciai in un elenco infinito di giochi a cui partecipavo sempre durante le feste, "obbligo o verità", "preferiresti", "hai mai", "il gioco della bottiglia" e simili, ma lui mi bloccò prima che potessi nominarli tutti, guardandomi quasi schifato.
«Calmati, baby» disse infatti, facendomi arrossire, mi aveva davvero chiamata baby? «Ho ancora una dignità, non la perderò con questi giochetti da bimbe sbronze» si lamentò, parlando in modo quasi incomprensibile per via della sigaretta che teneva tra le labbra e che non voleva far cadere.
La sua definizione dei miei passatempi, ridotti a miseri giochi stupidi, però, mi offese, dato che mi capitava spesso di farli, sia da sbronza che no e così, ancora una volta, mi costrinsi al silenzio.
Come immaginavo, non ci mise molto ad arrendersi, non sopportava che stessi zitta ed io gliene ero grata, perché per me era quasi impossibile.
«E va bene» sospirò, «ma non dovrà saperlo nessuno, prometti?».
«Lo prometto».
Allungai la mano verso Enrico, con il pugno chiuso e il mignolo sollevato, lui, in tutta risposta, mi fulminò con il suo sguardo di ghiaccio.
«No» disse gelido, «questo è troppo».
Pensai di supplicarlo finché non avesse acconsentito, ma sarebbe stato inutile, non avrebbe ceduto anche sulla pinky promise.
Abbassai il braccio, delusa, e strinsi le gambe al petto per cercare di riscaldarmi, iniziava a fare freddo.

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