2.Rosso

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Scattò subito in piedi, era come pietrificato, gli occhi gli si spalancarono e il nero di essi sembrò dilatarsi e diventare sempre più profondo e acuto come un buco nero, pienamente vuoto di ricordi.

Come poteva qualcuno conoscere, il suo "Rosso", il suo brano, ciò che lui suonava da sé.  A nessuno importava di lui e dei suoi stupidi brani alla quale dava solo nomi di colori.

E questa era "Rosso".

Erano loro Rosso.
Erano le loro dita a premere i tasti bianchi e neri del pianoforte.
Sempre e solo le loro dita.

Ray non accettava il fatto che qualcun altro potesse conoscere quella melodia.

Si precipitò alla porta della sua stanza, da dove sembrava che provenisse la melodia, era come se il vicino di casa stesse suonando il pianoforte, ma quando appoggiò l'orecchio alla parete, con gli occhi chiusi stretti stretti, il suono della sua melodia si interruppe e smise di risuonare nell'appartamento.

Delle gelide lacrime iniziarono a rigargli il viso. Nella testa di Ray riaffiorarono un sacco di pensieri, di ricordi laceranti, ricordi che gli smuovevano le intestina. Il suo stomaco adesso era sottosopra e la sua pelle, che diventava sempre più pallida, venne percossa da scosse di brividi. Brividi ovunque: fra le vertebre, fra la morbida peluria scura delle sue braccia, fra le dita tremolanti, che adesso, si tenevano ai capelli del colore del carbone, come se potessero riuscire a trovare appiglio e magari smettere di tremare.


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Ricordo ancora la pelle morbida dei suoi polpastrelli arrossati, a causa della pressione, che premeva sulle mie di dita.

Nella mia testa il suo rosso si fece spazio in mille ricordi. Ricordi sparpagliati, distrutti, alcuni nitidi, alcuni quasi del tutto cancellati, che adesso rifiorivano nel campo della mia mente come fiori di luna durante la buia notte.

Avevamo 4 anni quando iniziammo a suonare il piano, e lei era l'unica che suonava con me.
Crescemmo così, seguiti da melodie create da noi, tasti premuti, dita che si rincorrevano, che si intrecciavano. Crescemmo così, con sottofondo brani colorati di una musica tutta nostra.

"Fammi spazio, non ci entriamo in due nello sgabello." Fu la prima cosa che lei mi disse. Voleva suonare al piano, insieme me. Me lo chiese così gentilmente che dovetti guardarla un attimo di più per poterle rispondere al pari della sua richiesta. 

Era poco più bassa di me. Indossava un vestito bianco a quadretti verde pastello, i suoi capelli rossi erano legati in una mezza codina, con un nastro rosso di seta. 

Ci pensai a lungo, infine, continuando a mantenere un contatto visivo con lei, le dissi: "Potrei prenderti in braccio."

Non distolse lo sguardo dal mio. Prese come un'aria di presunzione e poi annuendo leggermente si avvicinò a me e si lasciò prendere in braccio. La tirai su per le ascelle, era molto piccolina.

Sì, furono proprio queste le prime parole che ci scambiammo. Avevo solo 4 anni, ma per lei, così piena di colori in grado di farmi tremare il piccolo stomaco che avevo, gambe indolenzite ed altro.

Andavamo nello stesso collegio, i miei genitori insegnavano ad Oxford, non avevano tempo per accudirmi, i suoi erano invece i proprietari di quella che io ho sempre definito 'gabbia'.

Era enorme quel collegio, le pareti esterne erano poderose e di un colore grigio sporco. Due colonne unite da un arco presentavano l'ingresso, assieme alle porte di legno scuro. Il giardino all'esterno si trovava dietro il secondo ingresso. L'erba era sempre ben curata e pulita. Ai rispettivi lati del giardino vi si trovavano due fontane di marmo bianco e degli alberi di salice piangente dietro ad esse. Tutta la struttura e l'enorme distesa verde del giardino erano racchiuse in una staccionata di ferro elegantemente nero. 

La trasparenza dei coloriWhere stories live. Discover now